È da poco uscito, per i tipi
della Donzelli, un ottimo libro scritto da Adachiara Zevi – “Monumenti
per difetto – Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo – in cui
l’autrice si sofferma sul concetto che vede, soprattutto in quelli
dedicati allo sterminio perpetrato dai nazisti, il passaggio dai
monumenti visti come oggetti da contemplare a percorsi da “agire”, per
far rivivere il tragitto – fisico, psicologico e morale – seguito dalle
vittime. E si sofferma soprattutto sulle “pietre d’inciampo”, ideate da
Gunter Demnig, che formano una specie di “memoriale diffuso”, dedicato a
tutti i deportati: discreto e sempre in divenire, è un enorme mosaico
della memoria europea in cui le tessere sono le decine di migliaia di
sampietrini decorato con una terghatta con un nome e collocati davanti a
quelle che furono le abitazioni dei deportati, che restituiscono loro
la dignità di persone “vive” e un luogo dove ricordarli.
E da anni che il Primo maggio,
sembra avere perduto il suo significato perché quel lavoro che, secondo
la premessa dell’articolo 1 della nostra Costituzione, è la base su cui
si fonda l’Italia come Repubblica democratica, sembra essere diventato
un di più, un qualcosa che coloro che hanno retto le sorti politiche ed
economiche del Paese hanno largamente sottovalutato perché hanno
ragionato – quando lo hanno fatto – esclusivamente in termini di denaro
e, quindi, di stipendio, mentre dovevano pensare anche alla dignità,
all’indipendenza, alla creatività, alla socialità e a mille altre cose
che sono state sottratte agli italiani con la sottrazione del lavoro.
Perché sono proprio la mancanza di lavoro e le sue conseguenze non
soltanto economiche il tarlo più distruttivo che sta corrodendo il
nostro Paese anche e soprattutto dal punto di vista etico.
Quindi, se è vero che non possiamo
più festeggiare il lavoro che non c’è più, forse sarebbe il caso di
ricordarne l’assenza non soltanto una volta l’anno, ma di sbattere in
faccia a tutti questa drammatica realtà ogni giorno che rischiara questa
terra. Magari proprio prendendo spunto dai monumenti dell’assenza,
dalle pietre d’inciampo. Forse non sarebbe male mettere sui muri delle
tante fabbriche sbarrate, dei tanti uffici chiusi, delle semplici
scritte sul tipo «Qui operava la ditta XY e vi lavoravano tot donne e
tot uomini». Forse questa drammatica realtà diventerebbe continuamente
presente e non evitabile non soltanto a chi il lavoro non lo ha più, ma
anche a coloro che, avendolo, preferiscono far finta di non vedere ciò
che sta appassendo loro attorno.
Buon Primo Maggio tutti. Ma soprattutto a coloro che non hanno motivi per festeggiarlo.
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