lunedì 27 gennaio 2014

Sulla deportazione femminile

Molto mi ha colpito il recentissimo pamphlet scritto da Elena Löwenthal ed esplicitamente intitolato “Contro il Giorno della Memoria” in cui – riassumo rozzamente – l’autrice afferma che desidererebbe veder nascere un Giorno dell’Oblio per poter dimenticare finalmente gli orrori che il nazismo ha perpetrato contro il suo popolo e per cancellare dalla sua mente i ricorrenti incubi che proprio nella memoria dei racconti da lei sentiti si annidano. A prima vista potrebbe sembrare che questo desiderio c’entri ben poco con il tema su cui stiamo riflettendo oggi, ma in realtà, invece, mi sembra utilissimo per avvicinarvisi.
La Löwenthal può esprimere questo concetto – che nella bocca di un altro apparirebbe blasfemo – perché è ebrea, è giovane ed è donna. Ma per gli stessi tre motivi – è ebrea, è giovane ed è donna – non può permettersi di essere seriamente contro il Giorno della Memoria; di desiderare davvero di cancellarlo.
In teoria gli ebrei potrebbero anche avere il diritto di dimenticare, ma devono essere coscienti che gli altri questo diritto non possono averlo, almeno fino a quando i germi del razzismo e delle intolleranze religiose, linguistiche e politiche – di cui anche Israele è in parte portatore – non saranno del tutto scomparsi dalla faccia della terra. Perché, tra l’altro, la memoria non deve riguardare soltanto i crimini commessi dagli altri, dai cattivi conclamati, da coloro che ci sono lontani nello spazio e nel tempo, ma anche quelli commessi da noi, come popolo, in certi periodi della nostra storia: per l’Italia ricordo soltanto le leggi razziali e il colonialismo condito da bombardamenti, gas mortali, repressioni e stragi in Libia e nella cosiddetta Africa Orientale, ma anche i Lager nostrani, quelli di Gonars e di Varmo, dove hanno trovato la morte centinaia di persone di lingua slovena o croata, o, ancora, le direttive di repressione della popolazione jugoslava durante la quale il generale Mario Roatta disponeva la «deportazione totalitaria» di civili che non avrebbero dovuto più «parlare e nemmeno pensare nella loro lingua», mentre il generale Mario Robotti si lamentava per iscritto che le truppe italiane ammazzavano troppo pochi abitanti dei villaggi sloveni.
Anche i giovani potrebbero non avere voglia di sentire storie del secolo scorso perché si sentono estranei a quegli anni e non colpevoli delle atrocità avvenute. Ma pure per loro la memoria è un obbligo, morale e pratico. Ha scritto Tzvetan Todorov: «Se in seguito al morbo di Alzheimer un individuo è privato della memoria, cessa di essere se stesso. Allo stesso modo un popolo non può esistere senza una memoria comune». È un richiamo alla necessità di non dimenticare mai il proprio passato, di non far finta che le cose più orribili non siano mai accadute, ma, anzi, di indagarle con spietatezza e di mantenerle vive per poi utilizzare, ogni volta in cui serve, l’armadio dei brutti ricordi, quel posto buio e pauroso dove, però, è obbligatorio guardare ogni tanto per tenere bene a mente gli orrori e gli errori che non si devono fare più.
Per le donne, poi, il problema della saturazione della memoria non dovrebbe neppure porsi in quanto, anzi, si è ancora molto indietro nella ricostruzione di quello che l’universo della deportazione, della prigionia e dello sterminio ha voluto dire per loro. E, in questo senso, il recupero della coscienza di quello che è accaduto è importante non tanto per ricordare le vittime, che comunque sarebbero oggetto della pietas di tutti e rimarrebbero sempre presenti nelle menti di parenti e amici per i vincoli di affetto traumaticamente spezzati, quanto perché la cosa fondamentale – per quanto paradossale possa sembrare – è ricordare i carnefici, l’aberrazione dello sterminio e del razzismo, e, così facendo, tenere sempre in primo piano quella generalizzazione che tutti noi, quotidianamente, anche inconsciamente, siamo portato a fare. I meridionali, gli islamici, i drogati, i gay, i rom, gli handicappati, i disoccupati, i mendicanti, gli extracomunitari, i tedeschi, i giapponesi, le donne, appunto, come se queste immense categorie non avessero in se milioni di diversità; come se queste generalizzazioni non fossero fatte di ignoranza e non portassero alla cancellazione dell’individualità, e, quindi, a una massificazione che racchiude in sé i germi del razzismo, della xenofobia, dell’aterofobia.
Generalizzare è comodo, perché ci evita la fatica di dover conoscere, di pensare, ragionare e scegliere, ma finisce per togliere agli “altri” la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, etnie, religioni, gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie a cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, pur tanto bistrattata, che deve sforzarsi a tenere gli “altri” vivi e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità. È la cultura che deve ricordare a tutti che le parole “xenofobia” e “aterofobia” non sono meno gravi di “razzismo”: ne sono soltanto l’orrenda anticamera.
In questa stessa sala, qualche anno fa, in un appuntamento dedicato al cosiddetto “omocausto”, allo sterminio nazista degli omosessuali, ho manifestato un mio disagio di fondo in quanto sento che c’è qualcosa di sbagliato nel ricordare separatamente le categorie delle vittime della sadica e lucida follia nazista; quasi che, così facendo, vengano perpetuate le divisioni volute dai carnefici di Hitler, che erano visivamente illustrate con forme e colori diversi. La stella gialla a sei punte per gli ebrei, e tutta una serie di triangoli: rosa per gli omosessuali, marrone per i rom, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, rosso per i politici, verde per i prigionieri comuni. E nulla per gli handicappati mentali e fisici perché loro neppure arrivavano ai campi di sterminio: erano affidati a un fai da te omicida nelle cosiddette case di cura dove solerti medici e infermieri e fantasiosi sperimentatori provvedevano a eliminarli, come ha magnificamente raccontato Marco Paolini nel suo “Ausmerzen, vite indegne di essere vissute”.
E nessun segno particolare era previsto anche per le donne. Si potrebbe pensare che una scelta simile fosse naturale perché comunque erano immediatamente distinguibili. E invece no, perché erano rapate a zero e perché i loro corpi, ingoffiti dalle divise della prigionia erano praticamente indistinguibili. Si potrebbe pensare che una scelta simile fosse inutile perché le donne erano confinate in aree, o in campi diversi da quelli destinati ai maschi. Ma anche questa tesi mostra i suoi limiti, perché tra i maschi comunque le divisioni visive erano mantenute pur nei Lager – diciamo così – “specializzati”. La realtà è che le donne erano considerate alla stregua degli “Untermenschen”, i sottouomini, o, meglio, in questo caso, gli esseri inferiori.
Se non erano destinate a portare in grembo futuri soldati al Reich – ed evidentemente le donne finite nei Lager non avevano i requisiti necessari della cosiddetta purezza voluta da Hitler – e se non erano destinate per avvenenza a dare piacere ai soldati del Reich, erano considerate poco più che bestie da soma con l’aggravante, rispetto ai maschi, che erano considerate più deboli, meno resistenti e ciclicamente esposte a inconvenienti come le mestruazioni, oltre al rischio di restare incinte. E così, già all’arrivo nei campi, finivano nelle camere a gas e nei forni crematori in quantità decisamente superiori a quelle dei maschi. E poi erano usate come cavie da esperimenti di sterilizzazione o di un inutile e fantasiosamente sadico artigianato genetico (chiamarlo ingegneria sarebbe assurdo) nel campo della sterilizzazione o della manipolazione in grembo dei nascituri. O erano destinate a lavori leggeri con pasti terribilmente inconsistenti, se non appositamente avariati, che le portavano in breve alla morte, o, ancora, come Kapo, o più esattamente come Blokove, con funzioni di comando delegato e di controllo sulle altre deportate. Comunque per le donne l’interesse degli aguzzini era mediamente inferiore e, quindi, la loro aspettativa di vita era ulteriormente ridotta.
Già in questo si può vedere che una delle maggiori difficoltà nel riuscire a valutare quello che accadeva nei Lager è data, fortunatamente per noi, dalla nostra incapacità di entrare negli stessi circuiti mentali degli aguzzini perché nel nazismo, e in situazioni paragonabili a quelle della dittatura nazista, l’importante non è l’essenza effettiva degli esseri umani, bensì come questi esseri umani sono visti dai carnefici.
E, nel caso delle donne, tutte sono state collocate sul gradino inferiore della scala anche approfittando di alcune loro debolezze non naturali, ma indotte dalla società in cui vivevano. Perché nella prima metà del secolo scorso – ma anche per molti anni dopo, e parzialmente ancora adesso – le donne sono state costrette a vivere in una specie di “ghetto diffuso” che non aveva limitazioni di luogo, ma ne aveva, e fortissime, nei riguardi delle competenze e, quindi, della libertà.
Pensiamo soltanto a cosa poteva voler dire per una donna, nei primi Anni Quaranta del Novecento, essere costretta a esporre in pubblico, a sguardi crudeli e/o lascivi, un corpo nudo che mai il pudore dell’epoca avrebbe permesso di vedere in circostanze normali. Pensiamo a cosa poteva voler dire sentirsi cancellare i capelli solitamente curati con attenzione come simbolo della propria bellezza e femminilità; a cosa comportava il vivere i periodi mestruali senza alcuno strumento per nascondere la propria condizione. E queste erano soltanto piccole cose perché, soprattutto, dovremmo tentare di avvicinarci alla disperata condizione psicologica di chi si vedeva strappare a forza dalle braccia i propri bambini per vederli condurre verso la morte, o, comunque, li vedeva spegnersi di stenti; alla condizione di chi aveva nel ventre una nuova vita destinata a essere tagliata non appena si apriva alla luce.
Sono tutte cose che si aggiungevano a quelle che valevano anche per gli uomini: non sapere se si sarebbe visto il tramonto del sole che si era visto sorgere; patire costantemente umiliazioni, fame, malattie e patimenti; vivere sempre nella psicosi del terrore indotto, oltre che dalle SS, anche dai Kapo da cui temevano di essere denunciati e poi puniti, anche senza aver fatto niente. E, in più, si subiva un processo di nullificazione in quanto ci si sentiva privati della propria identità e ridotti a pezzi numerati e intercambiabili tra i quali un ex delinquente comune poteva essere trattato meglio di uno arrestato soltanto perché aveva il naso adunco, o un nome che odorasse di Bibbia, o perché si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E questo portava con sé danni indotti non meno importanti perché, per non rischiare, si tendeva a isolarsi dagli altri prigionieri tanto da ridurre al minimo, o da far addirittura scomparire, la fratellanza e l’aiuto fisico e psicologico fra i deportati. Il tutto, poi, immersi costantemente nello sgomento indotto dal capire che non di pazzia di pochi si trattava, ma di freddo metodo di molti, perché sotto le bandiere con le croci uncinate agivano non solo sadici aguzzini, ma anche burocrati solerti e cinici: assassini da scrivania, ligi agli ordini e sordi a ogni sussulto di coscienza – i “volonterosi carnefici di Hitler”, come li ha definiti Daniel Goldhagen – che rendevano effettiva una disumanizzazione assoluta perché, come ha giustamente scritto Tito Maniacco, quella che dominava nei Lager «non è la morte come la conosciamo, che è uno spettacolo umano; è la morte come una negazione assoluta che viene poi espressa nella banalità tragicamente borghese dei pedanti rendiconti stesi su fogli accurati. È la contabilità che rende inesprimibile il Lager».
Eppure l’indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager si è evidenziata soprattutto in una quasi totale assenza di interesse, anche espressivo, per le tragedie delle donne; e questo ha portato molte deportate in un graduale ripiegamento su se stesse, accompagnato da patologie fisiche e mentali.
Né – ancor peggio – si può dimenticare che, a differenza di quello che accadeva agli uomini, le sofferenze delle deportate in moltissimi casi non finivano con la fine della deportazione. Perché al loro rientro si trovavano di fronte a insinuazioni che le ponevano spesso nella necessità di giustificarsi del fatto di essere sopravvissute, quasi che l’accusa di essersi concesse in qualche modo ai carnefici pur di salvarsi toccasse tutte le donne sopravvissute, senza eccezione alcuna. E anche questa è stata una discriminazione terribile, pur se non nazista, nei confronti delle vittime di sesso femminile, oltre che una affermazione di spregevole e vanagloriosa onnipotenza da parte di coloro che si ergevano a giudici e a guardiani della moralità. E forse anche per questo, per questa disumanità che è continuata anche al di fuori del filo spinato, le donne hanno prodotto relativamente poca letteratura di testimonianza.
Ma chi poteva e può permettersi di giudicare? Soprattutto riferendosi a circostanze in cui il male è tanto diffuso da diventare, come acutamente ha scritto Hannah Arendt, banale? Chi può dimenticare che nell’analisi del male importante non è il destinatario, ma il mittente; colui che infligge torture, tormenti e morte non per punire colpe altrui, ma per autoincensamento proprio.

L’impossibilità, l’illiceità del giudizio potrebbe essere già affermata con il «Nolite iudicare, ut non iudicamini», “Non giudicate, per non essere giudicati”, del Vangelo di Matteo, ma se questa sembra una prescrizione morale assoluta, più vicina al volere di Dio che alla natura dell’uomo. Forse è preferibile ricordare quello che scrive Dante, nel XIX canto del Paradiso, quando fa parlare l’aquila che, pur formata dalle luci splendenti dei beati, è decisamente più vicina alla fallibile e umana natura del poeta che alla grandezza di “Colui che tutto move”. L’aquila dice: «Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?».
Come si è potuto pensare di dare un giudizio su un’azione come se questa fosse svincolabile dalle circostanze in cui è avvenuta? Ben più umana – ed è tutto dire – è la regola cattolica per la quale per commettere peccato occorrono non soltanto la materia grave e la piena avvertenza, ma anche quel deliberato consenso che in un Lager certamente non aveva diritto di cittadinanza. Senza contare che, prima di un giudizio, quei poveri esseri che tornavano dall’inferno avevano bisogno di un atto di amore, di comprensione e, se del caso, di veloce e lieve aiuto a dimenticare.
E poi è evidente che donne e uomini non possono essere divisi esclusivamente in eroi ed esseri spregevoli. Oltre che non avere senso, sarebbe anche un formidabile deterrente al miglioramento comune perché non è difficile intuire che la salvezza di uno che non è perfetto diventa un grande messaggio di speranza per tutti. Mentre è terribile l’idea che soltanto gli eroi possano entrare nel regno dei cieli, o nella memoria dell’uomo. Perché l’obbligo di un atto di eroismo può scoraggiare chiunque, e farlo desistere anche dal rispettare quel principio su cui si fonda l’ordine etico che, invece, sembra connaturato ai più.
Dalle donne, da quelle donne offese, irrise e maltrattate sono arrivate testimonianze di atti di eroismo puro e disinteressato che addirittura acquistano maggior valore nello stridente contrasto con la malvagità, ma anche con l’indifferenza, quell’ostinata e cieca cura del proprio orticello mentre si fa finta che al di là delle mura di casa il mondo cessi di esistere. Perché se chi fa il male con le sue mani è colpevole del peccato di opere, gli indifferenti si macchiano scientemente di quello di omissione. E quando nel Confiteor si dice «...perché ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni» sono convinto che l’ordine delle parole non sia stato messo lì a casaccio, ma che chi lo ha scritto abbia realizzato scientemente un ordine crescente di gravità. L’omissione, il restare inerti, il far finta di non vedere, è la colpa più grave, perché è sicuramente un atteggiamento non istintivo, ma deliberato, perché è il trionfo dell’egoismo sul bene generale, della pigrizia sul dovere. Perché si possono permettere danni incommensurabili per piccini desideri di tranquillità.
Un gradino più in là c’è poi stata la connivenza. Tra i tanti orrori mostrati dal Pianista, il film di Roman Polanski ambientato nel ghetto di Varsavia e premiato con l’Oscar, forse quello che colpisce di più è il disumano e brutale egoismo degli ebrei che diventano aguzzini dei propri simili all’interno del ghetto senza rendersi conto che, così facendo, si prenotano soltanto uno degli ultimi posti della fila nella lugubre marcia verso le camere a gas. Eppure quella della anche tacita connivenza con i punti di riferimento della malvagità è una storia che si ripete e che dimostra, al di là di ogni legittimo sospetto, che il “no” non è quel monosillabo che istintivamente viene considerato come antipatico simbolo della negazione, ma è, invece, una parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante non soltanto di ogni vera democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza, perché rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia del ventesimo secolo – e non soltanto a Norimberga e a Gerusalemme durante il processo a Eichmann – abbiamo sentito dal banco degli accusati dove c’erano persone che si difendevano rispondendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». Mentre invece non si può dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso».
Ed è stato proprio dalle donne che sono arrivati alcuni dei più limpidi segnali di resistenza interna. Molto spesso le deportate non avevano preparazione politica, erano di estrazione sociale diversa, ma avevano in comune, come elemento di coesione, l’avversione e l’odio nei confronti dei nazisti e dei fascisti. Eppure, con queste poche armi a disposizione, in molte hanno trovato la forza di on lasciarsi andare, di resistere alla disumanizzazione, di escogitare sistemi di sopravvivenza, di aiutare le compagne di prigionia sviluppando rapporti di grande solidarietà che tra gli uomini sembrano essere stati più sporadici. E in molte, quando sono tornate, hanno avuto la determinazione di dire «Non perdonerò mai», come è stato detto dalla triestina Ida Marchetti, la cui storia è stata raccontata in un libro da Antonella Tiburzi e Aldo Pavia.
Per tornare al pamphlet scritto da Elena Löwenthal, è necessario continuare a far vivere Il Giorno della Memoria, perché, se ci pensiamo, non è il negazionismo l’aspetto più pericoloso della questione, bensì la voglia di non parlarne. Il negazionismo è tanto abnorme, talmente lontano da una realtà storica più che abbondantemente provata da far cadere nel ridicolo chi lo pratica, da non attrarre nessuno che non voglia già in partenza essere attratto. Un po’ più preoccupanti sono i tentativi di camuffare in maniera truffaldina la storia e di riscriverla per lavare alcuni panni sporchi. Ma decisamente pericoloso è il lasciar perdere, il far dimenticare un po’ alla volta con il silenzio, perché – frase abusata ma non per questo meno valida – chi non ricorda i propri errori è condannato a ripeterli. E questo vale sia per gli uomini, sia per i popoli.
Se ci pensate, il negazionismo è proprio un po’ come il razzismo che nelle sue forme più virulente è facilmente individuato e irrimediabilmente condannato. Chi, se non è razzista, non ha provato moti di ripulsa davanti alle divise brune o nere dei nazisti, ai cappucci del Ku Klux Klan? Chi non ha provato orrore davanti a quanto accadeva nel Sudafrica? Quanti non sentono vergogna di essere italiani ripensando alle cosiddette leggi per la difesa della razza? Ma queste reazioni sono facili, naturali. Molto più difficile è reagire davanti agli atteggiamenti che serpeggiano quotidianamente davanti ai nostri occhi e che possono portare a danni incommensurabili se non si fa nulla per eliminarli, o, quantomeno, per smussarli.
Un’esagerazione? Provate a pensare a dove nulla è stato fatto e si è lasciato che l’andazzo procedesse tranquillamente. Pensate a quanti mattatoi nazisti si sono reincarnati nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan, a Timor Est, in decine di altri paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America centrale e meridionale. Il problema è che perché il male trionfi, basta che i cosiddetti buoni non facciano niente per ostacolarlo. Per venire ai tempi nostri, non è mai giusto assistere alla promulgazione di leggi che portano a nuove discriminazioni, o ne resuscitano di antiche, senza manifestare in maniera stentorea la propria opposizione. Non è civile vedere manifestazioni dirette contro una parte dell’umanità senza sentirsi nell’obbligo di protestare.
Insomma, bisogna essere memoria, ancor prima che fare memoria. Ed essere memoria è mettersi in relazione con quei tempi, con le vittime e con i carnefici. In definitiva dovremmo domandarci: cosa avrei fatto io allora? E soprattutto dovremmo risponderci sinceramente. Come sinceramente si sono risposte molte donne durante la prigionia quando si sentivano, per usare le parole di Primo Levi, «come una rana d’inverno», ma anche dopo, quando sono tornate alle loro case con una determinazione assoluta a non voler più vedere guerre e dispotismi. Una determinazione che purtroppo a molti del mio sesso – e sovente tra i più potenti – è spesso mancata.

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