Ci
sono poche parole più equivoche e potenzialmente più pericolose del
pronome “noi”; anche quando viene sottinteso. Nella società è la base
fondante di ogni concetto di razzismo e di eterofobia. In politica quasi
sempre è usato per dividere più che per unire; ed è capace di
instillare il germe della rabbia, se non della rivolta, o almeno
dell’abbandono, anche è soprattutto se è usato inconsapevolmente in
maniera sbagliata.
Un
esempio? Prendiamo Enrico Letta e la sua frase che in questi giorni è
stata ripetuta quasi ossessivamente: «Abbiamo i conti a posto». Lui, con
quel “noi” sottinteso, evidentemente vuole riferirsi all’Italia e,
quindi, a tutti gli italiani, ma il risultato che ottiene è quello
diametralmente opposto perché viene spontaneo domandarsi: chi sono
questi noi che hanno i conti a posto?
Non
gli operai e gli impiegati che continuano a ricevere – sgraditi regali
non soltanto natalizi – lettere di licenziamento o di cassa
integrazione; non i precari che non arrivano a fine mese e che neppure
hanno più il sogno di arrivare a una certa stabilità; non i pensionati
che sentono tangibilmente che la loro pensione sta perdendo potere
d’acquisto; non gli imprenditori che si muovono tra le crescenti
difficoltà di un mercato asfittico che in parte anche loro hanno
contribuito a creare; non i commercianti che risentono in maniera
visibile, con negozi semivuoti, della medesima crisi. Non, in generale,
tutti i cittadini che vedono che si continuano a promettere futuri e
ipotetici miglioramenti economici in cambio di sicure e immediate
perdite di diritti. Non i più deboli, gli ultimi, i rifugiati, che si
sentono esclusi dal tentativo di tornare alle condizioni generali di
qualche anno fa in quanto vengono trattati, anche abbastanza
esplicitamente, come fastidiosa zavorra.
Con
quel “noi” sottinteso Letta sottolinea più divisioni che unioni, fa
sentire che tra Stato e cittadini c’è una distanza sempre più tangibile e
che l’ipotetico benessere del primo non corrisponde al benessere dei
secondi; fa allontanare sempre più gente dalla politica; rende sempre
più difficile il rapporto di fiducia tra il partito di cui è esponente –
il PD – e i ceti sociali che tradizionalmente dovrebbero esserne
l’anima; crea condizioni sempre migliori per rendere più comoda la
strada ai populismi.
Il
suo “noi”, pur se sottinteso, è uno dei più chiari esempi dei disastri
che possono causare la superficialità, o la troppa sicumera, nel
parlare. Perché i disastri - anche se molti cercano di sostenere il
contrario - non avvengono soltanto nell'economia.
domenica 29 dicembre 2013
sabato 14 dicembre 2013
Non capisco
Non
capisco. C’è un mucchio di gente che, ingenuamente, pensava che dopo
una condanna definitiva, la condanna scattasse. E tanti, pur descritti
come asociali, si sono lasciati portare in carcere senza fiatare, oppure
protestando ancora la loro innocenza e invocando l’errore giudiziario,
ma senza paventare colpi di Stato, oppure minacciare rivoluzioni.
Ebbene non capisco – e credo che con me in questo sconcerto ce ne siano molti altri – perché Berlusconi possa impunemente continuare a girare per l’Italia a fare comizi e sputare veleno contro quello Stato di cui, tra l’altro, è stato il capo del governo e che, insieme ai suoi sodali, ha sempre accusato di mollezza e non certo di eccesiva severità. Se non lo ricordate, pensate alla legge Bossi-Fini che mette in galera senza bisogno di alcun reato, né di alcun processo, o alla Fini-Giovanardi che impartisce pene severissime rispetto a una scala di valori sicuramente stravolta.
È giusto che Berlusconi – come la Costituzione prevede – abbia goduto di tutti i privilegi concessi ai parlamentari e non ai privati cittadini. È giusto – come legge ricchezza permette – che abbia potuto tirare tanto avanti i processi da farli finire per buona parte in prescrizione. È meno giusto – ma la democrazia non sa impedirlo – che un potente possa farsi costruire leggi ad personam. È anche giusto – vale per tutti – che a una certa età uno non debba essere rinchiuso in una cella.
Ma cosa c’è di giusto nel rimandare quasi sine die l’applicazione della sentenza? Cosa c’è di giusto nel non reagire a quegli sproloqui che farebbero condannare per direttissima un qualunque cittadino? Cosa c’è di giusto nel non arrestare in flagranza di reato chi davanti a tutti minaccia rivoluzioni come negli anni Settanta e Ottanta facevano i portavoce dei terrorismi rossi e neri? Occorre rischiare di arrivare allo spargimento di sangue, oppure si può e si deve impedire a un pregiudicato di attizzare il fuoco in animi di persone ben disposte a farsi attizzare e poi a proclamarsi non carnefici, ma vittime?
E intanto, mentre lo sento ogni giorno e contemporaneamente sento quello che urla Grillo, penso a cosa accadrebbe se uno di noi, che non siamo né Berlusconi, ne Grillo, dicesse e facesse le stesse cose.
Davvero non capisco.
Ebbene non capisco – e credo che con me in questo sconcerto ce ne siano molti altri – perché Berlusconi possa impunemente continuare a girare per l’Italia a fare comizi e sputare veleno contro quello Stato di cui, tra l’altro, è stato il capo del governo e che, insieme ai suoi sodali, ha sempre accusato di mollezza e non certo di eccesiva severità. Se non lo ricordate, pensate alla legge Bossi-Fini che mette in galera senza bisogno di alcun reato, né di alcun processo, o alla Fini-Giovanardi che impartisce pene severissime rispetto a una scala di valori sicuramente stravolta.
È giusto che Berlusconi – come la Costituzione prevede – abbia goduto di tutti i privilegi concessi ai parlamentari e non ai privati cittadini. È giusto – come legge ricchezza permette – che abbia potuto tirare tanto avanti i processi da farli finire per buona parte in prescrizione. È meno giusto – ma la democrazia non sa impedirlo – che un potente possa farsi costruire leggi ad personam. È anche giusto – vale per tutti – che a una certa età uno non debba essere rinchiuso in una cella.
Ma cosa c’è di giusto nel rimandare quasi sine die l’applicazione della sentenza? Cosa c’è di giusto nel non reagire a quegli sproloqui che farebbero condannare per direttissima un qualunque cittadino? Cosa c’è di giusto nel non arrestare in flagranza di reato chi davanti a tutti minaccia rivoluzioni come negli anni Settanta e Ottanta facevano i portavoce dei terrorismi rossi e neri? Occorre rischiare di arrivare allo spargimento di sangue, oppure si può e si deve impedire a un pregiudicato di attizzare il fuoco in animi di persone ben disposte a farsi attizzare e poi a proclamarsi non carnefici, ma vittime?
E intanto, mentre lo sento ogni giorno e contemporaneamente sento quello che urla Grillo, penso a cosa accadrebbe se uno di noi, che non siamo né Berlusconi, ne Grillo, dicesse e facesse le stesse cose.
Davvero non capisco.
mercoledì 11 dicembre 2013
Non dimenticate Ichino
La
vittoria di Renzi è una vittoria pienamente democratica e, come tale,
va rispettata e accettata; anche se può piacere poco perché poco sa di
sinistra. E, del resto, chi sogna l’unità della sinistra e anche per
poter lavorare per questo obbiettivo ha sempre rifiutato di prendere
qualsiasi tessera di partito, il PD resta l’unico punto di aggregazione
che possa avere una massa critica capace di attirare alleanze (da non
tradire) con gli altri partiti idealmente vicini.
Pur inghiottendo qualche boccone amaro, la parola scissione, quindi, non deve essere nemmeno pensata, se si ritiene che la politica sia una cosa seria per migliorare le condizioni della società e non un gioco capace di soddisfare al massimo il proprio io.
Di scissione all’interno della Lega parla Bossi che ancor prima delle loro primarie aveva annunciato che, in caso di sua sconfitta, se ne sarebbe andato a fondare un nuovo partito. Di scissione (non si sa quanto reale) si sono visti i risultati tra i Berlusconiani e i “diversamente berlusconiani”.
Di scissione – e in questo caso si tratta di cosa da non dimenticare – ha parlato Pietro Ichino dopo la sconfitta di Renzi dello scorso anno. E non soltanto ha parlato, ma l’ha anche messa immediatamente in pratica andando con Monti, candidandosi e venendo eletto con il suo raggruppamento. Si potrebbe dire che sono fatti suoi, ma il fatto è che, mentre Ichino se n’è andato verso luoghi sicuramente più a destra, le sue idee sulle politiche del lavoro purtroppo sono rimaste ben conficcate all’interno della parte attualmente maggioritaria del PD. E l’esperienza insegna che normalmente la qualità delle idee non è molto lontana dalla qualità di chi quelle idee produce e che continua a fondare il suo pensiero su una separazione sensibile tra il concetto di lavoro e quello di diritti, dando senza esitazioni la precedenza al primo in caso di coincidenze difficili con i secondi.
Ora la sua prima iniziativa, subito dopo la vittoria di Renzi, è stata quella di scrivere sul suo sito una lettera aperta nella quale, oltre ai numerosi riferimenti agli scritti suoi e di suo fratello Andrea e a un linguaggio ricco di tecnicismi e totalmente ripulito da ogni traccia di passione e compassione umana, traspare un’autocandidatura per rientrare e rimettere a posto il PD che lui definisce «il più conservatore dei partiti».
So bene che la vita politica da anni si regge sulla scarsa memoria storica degli italiani, ma, per favore, ricordate Ichino; ha tutto il diritto di elaborare e portare avanti le sue (per me) inaccettabili idee, ma non lasciatelo riavvicinare al PD perché – saggezza antica – le idee, come le mele, non cadono lontane dall’albero.
Pur inghiottendo qualche boccone amaro, la parola scissione, quindi, non deve essere nemmeno pensata, se si ritiene che la politica sia una cosa seria per migliorare le condizioni della società e non un gioco capace di soddisfare al massimo il proprio io.
Di scissione all’interno della Lega parla Bossi che ancor prima delle loro primarie aveva annunciato che, in caso di sua sconfitta, se ne sarebbe andato a fondare un nuovo partito. Di scissione (non si sa quanto reale) si sono visti i risultati tra i Berlusconiani e i “diversamente berlusconiani”.
Di scissione – e in questo caso si tratta di cosa da non dimenticare – ha parlato Pietro Ichino dopo la sconfitta di Renzi dello scorso anno. E non soltanto ha parlato, ma l’ha anche messa immediatamente in pratica andando con Monti, candidandosi e venendo eletto con il suo raggruppamento. Si potrebbe dire che sono fatti suoi, ma il fatto è che, mentre Ichino se n’è andato verso luoghi sicuramente più a destra, le sue idee sulle politiche del lavoro purtroppo sono rimaste ben conficcate all’interno della parte attualmente maggioritaria del PD. E l’esperienza insegna che normalmente la qualità delle idee non è molto lontana dalla qualità di chi quelle idee produce e che continua a fondare il suo pensiero su una separazione sensibile tra il concetto di lavoro e quello di diritti, dando senza esitazioni la precedenza al primo in caso di coincidenze difficili con i secondi.
Ora la sua prima iniziativa, subito dopo la vittoria di Renzi, è stata quella di scrivere sul suo sito una lettera aperta nella quale, oltre ai numerosi riferimenti agli scritti suoi e di suo fratello Andrea e a un linguaggio ricco di tecnicismi e totalmente ripulito da ogni traccia di passione e compassione umana, traspare un’autocandidatura per rientrare e rimettere a posto il PD che lui definisce «il più conservatore dei partiti».
So bene che la vita politica da anni si regge sulla scarsa memoria storica degli italiani, ma, per favore, ricordate Ichino; ha tutto il diritto di elaborare e portare avanti le sue (per me) inaccettabili idee, ma non lasciatelo riavvicinare al PD perché – saggezza antica – le idee, come le mele, non cadono lontane dall’albero.
giovedì 5 dicembre 2013
I veri corpi estranei
C’è
da capirli. Cosa mai ci possono fare delle persone di alto profilo
culturale e sociale all’interno di un Parlamento in cui ci sono
Scilipoti e Razzi, in cui vivono più pluri-inquisiti, in cui uno dei
tratti dominanti è sicuramente l’ignoranza?
Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado ed Elena Cattaneo sono dei veri corpi estranei nel Parlamento, ma soprattutto in un centrodestra in cui si vocifera che addirittura alcuni abbiano letto un paio di libri, ma di nascosto, per non rimetterci la reputazione.
Vorrei ricordare come fino a qualche decennio fa ci si sentiva intimoriti e rispettosi davanti a senatori e deputati perché si era convinti che, tranne qualche rara eccezione, fossero la crema del popolo italiano. E come oggi li si guardi con degnazione e fastidio perché sono molto rari quelli che possono rientrare nel concetto di “crema”. E non è cosa da poco perché è lo sgretolarsi delle istituzioni che consente lo sgretolarsi di una società.
L’unica cosa di cui teoricamente potremmo ringraziare i forzisti Elisabetta Casellati e Lucio Malan, Sandro Bondi e Maurizio Gasparri, la leghista Erika Stefani, il grillino Vito Crimi, i loro capi ed evidentemente Scilipoti e Razzi che – secondo il centrodestra – sono i prototipi dei parlamentari di qualità, è quella di farci ridere con le loro uscite. Ma è una risata talmente amara che non ci sogniamo minimamente di essere loro grati. Anzi.
Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado ed Elena Cattaneo sono dei veri corpi estranei nel Parlamento, ma soprattutto in un centrodestra in cui si vocifera che addirittura alcuni abbiano letto un paio di libri, ma di nascosto, per non rimetterci la reputazione.
Vorrei ricordare come fino a qualche decennio fa ci si sentiva intimoriti e rispettosi davanti a senatori e deputati perché si era convinti che, tranne qualche rara eccezione, fossero la crema del popolo italiano. E come oggi li si guardi con degnazione e fastidio perché sono molto rari quelli che possono rientrare nel concetto di “crema”. E non è cosa da poco perché è lo sgretolarsi delle istituzioni che consente lo sgretolarsi di una società.
L’unica cosa di cui teoricamente potremmo ringraziare i forzisti Elisabetta Casellati e Lucio Malan, Sandro Bondi e Maurizio Gasparri, la leghista Erika Stefani, il grillino Vito Crimi, i loro capi ed evidentemente Scilipoti e Razzi che – secondo il centrodestra – sono i prototipi dei parlamentari di qualità, è quella di farci ridere con le loro uscite. Ma è una risata talmente amara che non ci sogniamo minimamente di essere loro grati. Anzi.
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