venerdì 29 novembre 2013

Causa e non conseguenza

Mario Monti afferma che lo Statuto dei lavoratori ha favorito la crisi del lavoro; e tutti coloro che non sono proprio di destra lo rimbrottano e si indignano provocandone una pur parziale rettifica.
Marchionne se ne esce dicendo che le condizioni sono cambiate e che, quindi - dopo aver incassato gli arretramenti e le distruzioni sindacali concessigli da Cisl e Uil - non ha nessuna intenzione di investire quei 20 milioni di euro che aveva promesso in cambio e che avrebbe già dovuto impiegare un anno fa; e tutti, tranne alcuni ministri ingiustificabilmente rispettosi, protestano con veemenza.
Indignarsi per le frasi mistificanti e le azioni scorrette (uso termini fortemente edulcorati) va sicuramente bene, ma ancora una volta mi sembra che manchi una considerazione essenziale dalla quale bisognerebbe partire per focalizzare davvero alcuni dei motivi della crisi e per avere basi più solide su cui lavorare per uscirne.
Al di là delle tempeste finanziarie internazionali, l'Italia ha visto aggravarsi la sua situazione, per sue situazioni peculiari. Oggi, per esempio, si dice che la disoccupazione è conseguenza della crisi, mentre in realtà ne è stata una delle cause. Già ben più di dieci anni fa politici ed economisti per la maggior parte non ne parlavano, ma a lavoratori, parte dei sindacalisti e gente comune appariva inevitabile che togliere lo stipendio a molti diventati disoccupati e ridurlo a molti altri, precarizzati, cassintegrati o prepensionati grazie alle deregulation introdotte dalla legge Biagi e all'uso disinvolto che ne è stato fatto, avrebbe inevitabilmente finito per togliere denaro circolante e, quindi, per mettere in crisi il sistema consumistico su cui la nostra società è stata indirizzata e dalla quale non intende togliersi.
Almeno ora, a posteriori, bisognerebbe ammettere che questa situazione ha innescato un ciclo vizioso in cui chi ha il coltello dalla parte del manico, pensa in maniera miope ed egoistica di salvare se stesso e non si rende conto che sta affossando se stesso oltre che gli altri. È l’ennesima prova che abbiamo un disperato bisogno del ritorno della politica: di quella vera, ovviamente, non di quella cosa che per anni è stata chiamata così.

martedì 26 novembre 2013

Da dove arriva la politica

Sarebbe stupido illudersi che dal momento successivo alla sua giusta ed eccessivamente ritardata espulsione con ignominia dal Senato, di Berlusconi si possa non sentir parlare più. Sicuramente noi ne faremmo a meno, ma saranno certamente lui e i suoi ripetitori umani a non permettercelo.
Eppure sarebbe necessario distrarsi dalle sue urla scomposte per capire che nel resto del mondo si sta muovendo ancora qualcosa che si chiama politica. E non mi riferisco certamente né all’ennesimo voltafaccia di Casini che, dopo aver detto che su Berlusconi voterà diversamente da Alfano, ora, per tenersi come sempre tutte le porte aperte, spinge per un rinvio; né ai dibattiti tra gli aspiranti segretari del PD tra i quali l’unica cosa di davvero politico che ho sentito la si deve a Cuperlo: «Noi siamo la sinistra, non la parte buona della destra».
Mi riferisco alla Politica con la “P” maiuscola che finalmente si sete risuonare nuovamente in maniera forte, anche se l’origine è del tutto inconsueta, anche se non più troppo sorprendente. Mi riferisco alle parole scritte da Papa Francesco nella sua esortazione apostolica “Evangeli gaudium” con la quale pone sulla nostra e sua strada alcuni macigni come «Devo anche pensare a una conversione del papato»; «Questa economia uccide con la legge del più forte, dove il potente mangia il più debole»; «Un mercato divinizzato in cui regnano speculazione finanziaria, corruzione ramificata, evasione fiscale egoista».
O, ancora: «La crescita in equità esige qualcosa di più. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi», per arrivare al «dolore e nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa» e a «Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo. La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» ribadendo che «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato».
Vorrei proprio sapere quanti di coloro che siedono in Parlamento leggeranno queste parole che dovrebbero mettere completamente in ombra la fine politica di un omuncolo megalomane, egoista ed evasore. La speranza è che d’ora in poi molti dei nostri rappresentanti riprendano a leggere qualcosa di politica. Poi, un po’ alla volta, forse riprenderanno anche a farla, sognando, progettando, pensando al bene di chi bene non sta.
Potrebbe addirittura essere che un po’ di gente torni a votare.

martedì 19 novembre 2013

Soccorso non è protezione

Almeno diciassette morti, diversi dispersi, danni incalcolabili in una Sardegna messa in ginocchio dall’inclemenza di un clima che sta restituendo alla società gli schiaffi che l’uomo ha dato alla natura, e che può riuscire a essere così crudele anche e soprattutto per il male che l’uomo è riuscito a fare ai propri simili non soltanto non curando, ma spesso violentando un territorio che è tra i meno salvaguardati sulla faccia della terra.
Anche questi lutti mettono in luce l’incapacità della nostra politica nel riuscire a far qualcosa che sia di sostanza prima che di propaganda. E in quest’ottica, pur di rendere più gradevole la realtà, è riuscita anche a truccare il vocabolario. Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, ma che porta un nome completamente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, e quindi prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe rimanere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto; ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione.
Una politica che riuscisse anche a dialogare con l’Europa – e prima ancora a ragionare con se stessa – per far capire che gli interventi sul territorio non sono spese, bensì investimenti. Basterebbe pensare soltanto a quanti danni sarebbero evitati – per non parlare del costo incalcolabile in termini di vite umane – se in Sardegna - e in Friuli c'è da preoccuparsi almeno altrettanto - si fosse fatto per tempo quello che si sarebbe dovuto fare in termini di adeguamento e pulizia degli alvei, di controlli di staticità dei ponti, di pulizia, se non di rafforzamento dei versanti.
Vien quasi da dire amaramente e paradossalmente che purtroppo la malavita organizzata non ama molto la cultura: se un boss delle varie mafie esistenti nel nostro Paese avesse ottenuto una laurea in geologia forse avrebbe pensato di guadagnare proprio con la prevenzione. E in tal caso le ruberie sarebbero state le stesse, ma il nostro Paese sarebbe stato più sicuro.
Beato il Paese che ha un ceto politico capace di rendere impossibile la nascita di certi pensieri.

venerdì 1 novembre 2013

La corsa al peggio

Di almeno una cosa bisogna dar atto ai cosiddetti “tecnici”: di avere dato – per quel che si può e in senso relativo – dignità ai politici. Basterebbe pensare all’incredibile suicidio politico del capofila dei tecnici, Mario Monti, ai disastri e alle gaffes firmati dalla Fornero, alle miserande soluzioni escogitate da illustri economisti che hanno soltanto predicato tagli senza pensare che così non muore l’economia ma un intero Paese; e si potrebbe andare avanti.
Adesso, però, credo che Anna Maria Cancellieri abbia posto la lapide definitiva sulle ambizioni dei “tecnici” di governare un Paese. Il suo comportamento sul caso Ligresti è – a essere buoni – incredibile: possibile che non le sia neppure passato per la testa che un Guardasigilli non deve interferire con l’operato della magistratura? Che il suo telefono non serve per sentirsi chiedere favori e per richiedere a sua volta favori che, se detti da un ministro, diventano imperativi? Che non soltanto i ricchi e potenti soffrono la reclusione in carcere?

E non può certo sperare che la sua scorrettezza istituzionale possa essere dimenticata davanti al fatto che l’immagine del ministro della difesa Mario Mauro sia usata come pubblicità dalla Lockheed per propagandare gli F35, ridando fiato nella corsa al peggio tra “tecnici” e “politici”.