domenica 29 dicembre 2013

Ma cosa significa “noi”?

Ci sono poche parole più equivoche e potenzialmente più pericolose del pronome “noi”; anche quando viene sottinteso. Nella società è la base fondante di ogni concetto di razzismo e di eterofobia. In politica quasi sempre è usato per dividere più che per unire; ed è capace di instillare il germe della rabbia, se non della rivolta, o almeno dell’abbandono, anche è soprattutto se è usato inconsapevolmente in maniera sbagliata.
Un esempio? Prendiamo Enrico Letta e la sua frase che in questi giorni è stata ripetuta quasi ossessivamente: «Abbiamo i conti a posto». Lui, con quel “noi” sottinteso, evidentemente vuole riferirsi all’Italia e, quindi, a tutti gli italiani, ma il risultato che ottiene è quello diametralmente opposto perché viene spontaneo domandarsi: chi sono questi noi che hanno i conti a posto?
Non gli operai e gli impiegati che continuano a ricevere – sgraditi regali non soltanto natalizi – lettere di licenziamento o di cassa integrazione; non i precari che non arrivano a fine mese e che neppure hanno più il sogno di arrivare a una certa stabilità; non i pensionati che sentono tangibilmente che la loro pensione sta perdendo potere d’acquisto; non gli imprenditori che si muovono tra le crescenti difficoltà di un mercato asfittico che in parte anche loro hanno contribuito a creare; non i commercianti che risentono in maniera visibile, con negozi semivuoti, della medesima crisi. Non, in generale, tutti i cittadini che vedono che si continuano a promettere futuri e ipotetici miglioramenti economici in cambio di sicure e immediate perdite di diritti. Non i più deboli, gli ultimi, i rifugiati, che si sentono esclusi dal tentativo di tornare alle condizioni generali di qualche anno fa in quanto vengono trattati, anche abbastanza esplicitamente, come fastidiosa zavorra.
Con quel “noi” sottinteso Letta sottolinea più divisioni che unioni, fa sentire che tra Stato e cittadini c’è una distanza sempre più tangibile e che l’ipotetico benessere del primo non corrisponde al benessere dei secondi; fa allontanare sempre più gente dalla politica; rende sempre più difficile il rapporto di fiducia tra il partito di cui è esponente – il PD – e i ceti sociali che tradizionalmente dovrebbero esserne l’anima; crea condizioni sempre migliori per rendere più comoda la strada ai populismi.
Il suo “noi”, pur se sottinteso, è uno dei più chiari esempi dei disastri che possono causare la superficialità, o la troppa sicumera, nel parlare. Perché i disastri - anche se molti cercano di sostenere il contrario - non avvengono soltanto nell'economia.

sabato 14 dicembre 2013

Non capisco

Non capisco. C’è un mucchio di gente che, ingenuamente, pensava che dopo una condanna definitiva, la condanna scattasse. E tanti, pur descritti come asociali, si sono lasciati portare in carcere senza fiatare, oppure protestando ancora la loro innocenza e invocando l’errore giudiziario, ma senza paventare colpi di Stato, oppure minacciare rivoluzioni.
Ebbene non capisco – e credo che con me in questo sconcerto ce ne siano molti altri – perché Berlusconi possa impunemente continuare a girare per l’Italia a fare comizi e sputare veleno contro quello Stato di cui, tra l’altro, è stato il capo del governo e che, insieme ai suoi sodali, ha sempre accusato di mollezza e non certo di eccesiva severità. Se non lo ricordate, pensate alla legge Bossi-Fini che mette in galera senza bisogno di alcun reato, né di alcun processo, o alla Fini-Giovanardi che impartisce pene severissime rispetto a una scala di valori sicuramente stravolta.
È giusto che Berlusconi – come la Costituzione prevede – abbia goduto di tutti i privilegi concessi ai parlamentari e non ai privati cittadini. È giusto – come legge ricchezza permette – che abbia potuto tirare tanto avanti i processi da farli finire per buona parte in prescrizione. È meno giusto – ma la democrazia non sa impedirlo – che un potente possa farsi costruire leggi ad personam. È anche giusto – vale per tutti – che a una certa età uno non debba essere rinchiuso in una cella.

Ma cosa c’è di giusto nel rimandare quasi sine die l’applicazione della sentenza? Cosa c’è di giusto nel non reagire a quegli sproloqui che farebbero condannare per direttissima un qualunque cittadino? Cosa c’è di giusto nel non arrestare in flagranza di reato chi davanti a tutti minaccia rivoluzioni come negli anni Settanta e Ottanta facevano i portavoce dei terrorismi rossi e neri? Occorre rischiare di arrivare allo spargimento di sangue, oppure si può e si deve impedire a un pregiudicato di attizzare il fuoco in animi di persone ben disposte a farsi attizzare e poi a proclamarsi non carnefici, ma vittime?
E intanto, mentre lo sento ogni giorno e contemporaneamente sento quello che urla Grillo, penso a cosa accadrebbe se uno di noi, che non siamo né Berlusconi, ne Grillo, dicesse e facesse le stesse cose.
Davvero non capisco.

mercoledì 11 dicembre 2013

Non dimenticate Ichino

La vittoria di Renzi è una vittoria pienamente democratica e, come tale, va rispettata e accettata; anche se può piacere poco perché poco sa di sinistra. E, del resto, chi sogna l’unità della sinistra e anche per poter lavorare per questo obbiettivo ha sempre rifiutato di prendere qualsiasi tessera di partito, il PD resta l’unico punto di aggregazione che possa avere una massa critica capace di attirare alleanze (da non tradire) con gli altri partiti idealmente vicini.
Pur inghiottendo qualche boccone amaro, la parola scissione, quindi, non deve essere nemmeno pensata, se si ritiene che la politica sia una cosa seria per migliorare le condizioni della società e non un gioco capace di soddisfare al massimo il proprio io.
Di scissione all’interno della Lega parla Bossi che ancor prima delle loro primarie aveva annunciato che, in caso di sua sconfitta, se ne sarebbe andato a fondare un nuovo partito. Di scissione (non si sa quanto reale) si sono visti i risultati tra i Berlusconiani e i “diversamente berlusconiani”.
Di scissione – e in questo caso si tratta di cosa da non dimenticare – ha parlato Pietro Ichino dopo la sconfitta di Renzi dello scorso anno. E non soltanto ha parlato, ma l’ha anche messa immediatamente in pratica andando con Monti, candidandosi e venendo eletto con il suo raggruppamento. Si potrebbe dire che sono fatti suoi, ma il fatto è che, mentre Ichino se n’è andato verso luoghi sicuramente più a destra, le sue idee sulle politiche del lavoro purtroppo sono rimaste ben conficcate all’interno della parte attualmente maggioritaria del PD. E l’esperienza insegna che normalmente la qualità delle idee non è molto lontana dalla qualità di chi quelle idee produce e che continua a fondare il suo pensiero su una separazione sensibile tra il concetto di lavoro e quello di diritti, dando senza esitazioni la precedenza al primo in caso di coincidenze difficili con i secondi.
Ora la sua prima iniziativa, subito dopo la vittoria di Renzi, è stata quella di scrivere sul suo sito una lettera aperta nella quale, oltre ai numerosi riferimenti agli scritti suoi e di suo fratello Andrea e a un linguaggio ricco di tecnicismi e totalmente ripulito da ogni traccia di passione e compassione umana, traspare un’autocandidatura per rientrare e rimettere a posto il PD che lui definisce «il più conservatore dei partiti».
So bene che la vita politica da anni si regge sulla scarsa memoria storica degli italiani, ma, per favore, ricordate Ichino; ha tutto il diritto di elaborare e portare avanti le sue (per me) inaccettabili idee, ma non lasciatelo riavvicinare al PD perché – saggezza antica – le idee, come le mele, non cadono lontane dall’albero.

giovedì 5 dicembre 2013

I veri corpi estranei

C’è da capirli. Cosa mai ci possono fare delle persone di alto profilo culturale e sociale all’interno di un Parlamento in cui ci sono Scilipoti e Razzi, in cui vivono più pluri-inquisiti, in cui uno dei tratti dominanti è sicuramente l’ignoranza?
Renzo Piano, Carlo Rubbia, Claudio Abbado ed Elena Cattaneo sono dei veri corpi estranei nel Parlamento, ma soprattutto in un centrodestra in cui si vocifera che addirittura alcuni abbiano letto un paio di libri, ma di nascosto, per non rimetterci la reputazione.
Vorrei ricordare come fino a qualche decennio fa ci si sentiva intimoriti e rispettosi davanti a senatori e deputati perché si era convinti che, tranne qualche rara eccezione, fossero la crema del popolo italiano. E come oggi li si guardi con degnazione e fastidio perché sono molto rari quelli che possono rientrare nel concetto di “crema”. E non è cosa da poco perché è lo sgretolarsi delle istituzioni che consente lo sgretolarsi di una società.
L’unica cosa di cui teoricamente potremmo ringraziare i forzisti Elisabetta Casellati e Lucio Malan, Sandro Bondi e Maurizio Gasparri, la leghista Erika Stefani, il grillino Vito Crimi, i loro capi ed evidentemente Scilipoti e Razzi che – secondo il centrodestra – sono i prototipi dei parlamentari di qualità, è quella di farci ridere con le loro uscite. Ma è una risata talmente amara che non ci sogniamo minimamente di essere loro grati. Anzi.

venerdì 29 novembre 2013

Causa e non conseguenza

Mario Monti afferma che lo Statuto dei lavoratori ha favorito la crisi del lavoro; e tutti coloro che non sono proprio di destra lo rimbrottano e si indignano provocandone una pur parziale rettifica.
Marchionne se ne esce dicendo che le condizioni sono cambiate e che, quindi - dopo aver incassato gli arretramenti e le distruzioni sindacali concessigli da Cisl e Uil - non ha nessuna intenzione di investire quei 20 milioni di euro che aveva promesso in cambio e che avrebbe già dovuto impiegare un anno fa; e tutti, tranne alcuni ministri ingiustificabilmente rispettosi, protestano con veemenza.
Indignarsi per le frasi mistificanti e le azioni scorrette (uso termini fortemente edulcorati) va sicuramente bene, ma ancora una volta mi sembra che manchi una considerazione essenziale dalla quale bisognerebbe partire per focalizzare davvero alcuni dei motivi della crisi e per avere basi più solide su cui lavorare per uscirne.
Al di là delle tempeste finanziarie internazionali, l'Italia ha visto aggravarsi la sua situazione, per sue situazioni peculiari. Oggi, per esempio, si dice che la disoccupazione è conseguenza della crisi, mentre in realtà ne è stata una delle cause. Già ben più di dieci anni fa politici ed economisti per la maggior parte non ne parlavano, ma a lavoratori, parte dei sindacalisti e gente comune appariva inevitabile che togliere lo stipendio a molti diventati disoccupati e ridurlo a molti altri, precarizzati, cassintegrati o prepensionati grazie alle deregulation introdotte dalla legge Biagi e all'uso disinvolto che ne è stato fatto, avrebbe inevitabilmente finito per togliere denaro circolante e, quindi, per mettere in crisi il sistema consumistico su cui la nostra società è stata indirizzata e dalla quale non intende togliersi.
Almeno ora, a posteriori, bisognerebbe ammettere che questa situazione ha innescato un ciclo vizioso in cui chi ha il coltello dalla parte del manico, pensa in maniera miope ed egoistica di salvare se stesso e non si rende conto che sta affossando se stesso oltre che gli altri. È l’ennesima prova che abbiamo un disperato bisogno del ritorno della politica: di quella vera, ovviamente, non di quella cosa che per anni è stata chiamata così.

martedì 26 novembre 2013

Da dove arriva la politica

Sarebbe stupido illudersi che dal momento successivo alla sua giusta ed eccessivamente ritardata espulsione con ignominia dal Senato, di Berlusconi si possa non sentir parlare più. Sicuramente noi ne faremmo a meno, ma saranno certamente lui e i suoi ripetitori umani a non permettercelo.
Eppure sarebbe necessario distrarsi dalle sue urla scomposte per capire che nel resto del mondo si sta muovendo ancora qualcosa che si chiama politica. E non mi riferisco certamente né all’ennesimo voltafaccia di Casini che, dopo aver detto che su Berlusconi voterà diversamente da Alfano, ora, per tenersi come sempre tutte le porte aperte, spinge per un rinvio; né ai dibattiti tra gli aspiranti segretari del PD tra i quali l’unica cosa di davvero politico che ho sentito la si deve a Cuperlo: «Noi siamo la sinistra, non la parte buona della destra».
Mi riferisco alla Politica con la “P” maiuscola che finalmente si sete risuonare nuovamente in maniera forte, anche se l’origine è del tutto inconsueta, anche se non più troppo sorprendente. Mi riferisco alle parole scritte da Papa Francesco nella sua esortazione apostolica “Evangeli gaudium” con la quale pone sulla nostra e sua strada alcuni macigni come «Devo anche pensare a una conversione del papato»; «Questa economia uccide con la legge del più forte, dove il potente mangia il più debole»; «Un mercato divinizzato in cui regnano speculazione finanziaria, corruzione ramificata, evasione fiscale egoista».
O, ancora: «La crescita in equità esige qualcosa di più. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi», per arrivare al «dolore e nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa» e a «Chiedo a Dio che cresca il numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo. La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune» ribadendo che «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato».
Vorrei proprio sapere quanti di coloro che siedono in Parlamento leggeranno queste parole che dovrebbero mettere completamente in ombra la fine politica di un omuncolo megalomane, egoista ed evasore. La speranza è che d’ora in poi molti dei nostri rappresentanti riprendano a leggere qualcosa di politica. Poi, un po’ alla volta, forse riprenderanno anche a farla, sognando, progettando, pensando al bene di chi bene non sta.
Potrebbe addirittura essere che un po’ di gente torni a votare.

martedì 19 novembre 2013

Soccorso non è protezione

Almeno diciassette morti, diversi dispersi, danni incalcolabili in una Sardegna messa in ginocchio dall’inclemenza di un clima che sta restituendo alla società gli schiaffi che l’uomo ha dato alla natura, e che può riuscire a essere così crudele anche e soprattutto per il male che l’uomo è riuscito a fare ai propri simili non soltanto non curando, ma spesso violentando un territorio che è tra i meno salvaguardati sulla faccia della terra.
Anche questi lutti mettono in luce l’incapacità della nostra politica nel riuscire a far qualcosa che sia di sostanza prima che di propaganda. E in quest’ottica, pur di rendere più gradevole la realtà, è riuscita anche a truccare il vocabolario. Un esempio che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi è quello della “Protezione civile”, organizzazione più che benemerita, ma che porta un nome completamente sbagliato. “Protezione”, infatti, deriva da proteggere, dal latino pro (davanti, e quindi prima) e tegere (coprire). Quindi proteggere vuol dire fare scudo, intervenire in anticipo e non a frittata già fatta, quando si tratta di raccogliere morti e feriti, di recuperare quel poco che non è stato distrutto, di fare i pesanti conti dei danni, di rattoppare alla bell’e meglio comunità che portano ferite tanto gravi da non riprendersi più, se non trasformandosi profondamente; e non sempre in meglio. In realtà la Protezione civile che conosciamo dovrebbe chiamarsi, più puntualmente, “Soccorso civile” e dovrebbe rimanere pronta a intervenire sui disastri perché mai l’uomo riuscirà a innalzarsi completamente sopra la natura e a evitarli del tutto; ma accanto ci dovrebbe essere una vera e propria “Protezione civile” intesa non solo come organizzazione, ma anche e soprattutto come sincera filosofia politica che possa essere messa in condizioni di lavorare per la prevenzione.
Una politica che riuscisse anche a dialogare con l’Europa – e prima ancora a ragionare con se stessa – per far capire che gli interventi sul territorio non sono spese, bensì investimenti. Basterebbe pensare soltanto a quanti danni sarebbero evitati – per non parlare del costo incalcolabile in termini di vite umane – se in Sardegna - e in Friuli c'è da preoccuparsi almeno altrettanto - si fosse fatto per tempo quello che si sarebbe dovuto fare in termini di adeguamento e pulizia degli alvei, di controlli di staticità dei ponti, di pulizia, se non di rafforzamento dei versanti.
Vien quasi da dire amaramente e paradossalmente che purtroppo la malavita organizzata non ama molto la cultura: se un boss delle varie mafie esistenti nel nostro Paese avesse ottenuto una laurea in geologia forse avrebbe pensato di guadagnare proprio con la prevenzione. E in tal caso le ruberie sarebbero state le stesse, ma il nostro Paese sarebbe stato più sicuro.
Beato il Paese che ha un ceto politico capace di rendere impossibile la nascita di certi pensieri.

venerdì 1 novembre 2013

La corsa al peggio

Di almeno una cosa bisogna dar atto ai cosiddetti “tecnici”: di avere dato – per quel che si può e in senso relativo – dignità ai politici. Basterebbe pensare all’incredibile suicidio politico del capofila dei tecnici, Mario Monti, ai disastri e alle gaffes firmati dalla Fornero, alle miserande soluzioni escogitate da illustri economisti che hanno soltanto predicato tagli senza pensare che così non muore l’economia ma un intero Paese; e si potrebbe andare avanti.
Adesso, però, credo che Anna Maria Cancellieri abbia posto la lapide definitiva sulle ambizioni dei “tecnici” di governare un Paese. Il suo comportamento sul caso Ligresti è – a essere buoni – incredibile: possibile che non le sia neppure passato per la testa che un Guardasigilli non deve interferire con l’operato della magistratura? Che il suo telefono non serve per sentirsi chiedere favori e per richiedere a sua volta favori che, se detti da un ministro, diventano imperativi? Che non soltanto i ricchi e potenti soffrono la reclusione in carcere?

E non può certo sperare che la sua scorrettezza istituzionale possa essere dimenticata davanti al fatto che l’immagine del ministro della difesa Mario Mauro sia usata come pubblicità dalla Lockheed per propagandare gli F35, ridando fiato nella corsa al peggio tra “tecnici” e “politici”.

domenica 27 ottobre 2013

Il significato del verbo vincere

In questi ultimi tempi ho ascoltato più volte Matteo Renzi alla televisione e una volta Gianni Cuperlo in Sala Ajace, a Udine. Su molti aspetti hanno detto, sia pur con sfumature diverse e significative, cose molto simili: la necessità della riconquista del predominio della politica sull’economia e sulla finanza; l’obbligo da parte del centrosinistra di non rincorrere più le politiche di Berlusconi (chiamarle di centrodestra mi sembrerebbe offensivo nei confronti dei veri liberali ancora esistenti); l’imperativo di ridare a tutti i diritti e la dignità che il berlusconismo ha sottratto agli italiani.
Potrebbero sembrare strade contigue, anche se non coincidenti, ma è sul significato della parola vincere che le idee dei due più accreditati candidati alla segreteria del PD sono totalmente divergenti visto che Renzi parla senza problemi di voler recuperare i voti dei delusi dall’ex PDL e da Grillo, mentre Cuperlo indirizza i suoi sforzi verso gli elettori di centrosinistra – tanti – che, stufi delle delusioni loro inferte da un partito troppo spesso più dedito alle battaglie interne che a quelle sociali, hanno momentaneamente scelto un voto di protesta, o, molti di più, la rinuncia al diritto di voto.
Proviamo a pensarci: vincere attraendo voti dal PDL e dal M5S significherebbe annacquare i propri progetti e velare i propri valori; non sarebbe vincere, ma soltanto occupare posizioni di potere, perché in politica – quella vera che da tanto tempo non abbiamo più visto, se non durante la breve parentesi del primo governo Prodi – vincere significa portare avanti le proprie idee e realizzarle, per quanto possibile; non ridurle e stravolgerle già in partenza per venire incontro alle pretese dei meno reazionari tra berlusconiani e grillini al solo scopo di conquistare qualche voto in più.
Renzi ripete che a lui non piace perdere, come se gli altri godessero delle proprie sconfitte. Ma si tratta soltanto di capire dove collocare temporalmente il concetto di sconfitta. Mi pare che le dichiarate politiche economiche e di lavoro del sindaco di Firenze pongano la sconfitta degli ideali come base di partenza per la vittoria alla elezioni. Per me, invece, la sconfitta è accettabile soltanto poi, soltanto dopo aver combattuto, soltanto se non si è riusciti, mantenendo inalterati i propri ideali e la propria dignità, a convincere le grandi masse dei disamorati pur avendo lavorato al massimoper riuscirci.
Non è accettabile neppure dopo se è la conseguenza di un camuffamento malamente riuscito, come non è accettabile la vittoria se il camuffamento, invece, è riuscito.
I sondaggi danno Renzi vincente su Cuperlo, ma credo che nessuno debba votare soltanto seguendo i sondaggi. Con tutto il rispetto per coloro che alle primarie voteranno Renzi e sempre pensando che il centrosinistra alla fine debba essere unito nel combattere la destra, dico – ammesso che a qualcuno possa interessare – che voterò Cuperlo perché è da lui che ho sentito ripetere dopo alcuni decenni che la vera politica deve essere profezia; che è lui che ha sottolineato che deve esserci una connessione sentimentale tra l’eletto e che rappresenta; che nella sua campagna elettorale è il simbolo del partito, e cioè dei suoi ideali, a dominare sul nome del candidato e non viceversa, come ha insegnato Berlusconi e come Renzi ritiene giusto continuare a fare.

lunedì 21 ottobre 2013

I vicini e i lontani

A guardare la tradizione e la situazione politica italiana verrebbe da pensare che la caratteristica precipua della sinistra consista nel vedere con maggiore fastidio i piccoli gradini che differenziano in qualcosa le posizioni del vicino, piuttosto che gli abissi che separano da quelle del lontano, avversario o nemico che sia.
E non serve neppure scomodare la storia per ricordare l’omicidio-suicidio perpetrato dall’imperdonabile Fausto Bertinotti nei confronti del governo Prodi. Basta guardare alla cronaca, visto che buona parte delle donne e degli uomini del PD finisce per sopportare, pur brontolando, le nefandezze – per opere e per omissioni – del governo Letta-Alfano, mentre non si sforza minimamente non di fare proprie le idee di compagni di partito che si muovono in correnti diverse, ma neppure di sottoporsi al primo sforzo necessario per poi poter discutere: quello di ascoltare.
Il sospetto è che basterebbe che gli esponenti della sinistra e del centrosinistra usassero soltanto una frazione della decisione e della cattiveria con la quale affrontano i compagni di partito e gli esponenti dei partiti più vicini per controbattere coloro dai quali si è divisi da insanabili diversità etiche, politiche, economiche e sociali, per ridare un volto meno disumano a questa Italia e per recuperare buona parte degli elettori di sinistra che non vanno più alle urne perché lì la sinistra è difficilissima da trovare. O che ci vanno illusi da qualcuno che da sinistra si camuffa, ma che poi, alla prova dei fatti, si rivela per quello che è: un leghista che è parzialmente riuscito a ripulirsi dalla vernice verde.
Dicevo prima che non serve disturbare la storia e, invece, bisogna farlo perché è la scarsa memoria collettiva che permette ai pochi di imbrogliare i più. È la storia, infatti, a insegnare che mediare con i vicini è la chiave per migliorare e che mediare con i lontani è la via per scomparire. Ed è sempre la storia a dimostrare abbondantemente che quando la sinistra si divide, inevitabilmente vince la destra.
Succede anche all’estero, ma il problema è che in Italia la destra è Berlusconi. E non può certo consolarci il fatto che in Francia il frutto della divisione della sinistra e del suo annacquamento rischia di chiamarsi Le Pen.

venerdì 4 ottobre 2013

Lo schermo della vergogna

È davvero strano un mondo in cui faccia notizia il fatto che un Papa abbia detto «Una sola parola: vergogna», riferendosi alla tragedia di Lampedusa, l’ennesima, ma anche largamente la più drammaticamente grave. Viene il sospetto che questa parola sia stata alzata nei titoli come uno schermo capace di mettere in ombra le altre parole che ha detto e che ben raramente sono state sentire echeggiare nelle stanze vaticane: «la inumana crisi economica mondiale che è un sintomo grande della mancanza di rispetto per l’uomo», «la mancanza di rispetto per la verità con cui sono state prese decisioni da parte di governi e di cittadini», e «non soltanto i principali diritti politici e civili devono essere garantiti, ma si deve offrire a ognuno la possibilità di accedere effettivamente ai mezzi essenziali di sussistenza, il cibo, l’acqua, la casa, le cure sanitarie, l’istruzione e la possibilità di formare e sostenere una famiglia».
E la parola “Vergogna!” ha messo in ombra anche una terribile accusa del sindaco di Lampedusa, Giusy Nicolini, che, in lacrime, ha detto: «Tre pescherecci sono andati via dal luogo della tragedia perché il nostroi Paese ha processato tante volte i pescatori che hanno salvato vitte per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
E la parola “Vergogna!” è deviante perché fa sempre pensare che sia indirizzata ad altri, mentre, invece, tocca anche noi perché se in una democrazia è stata approvata quella schifezza immonda delle legge Bossi-Fini, la colpa è anche di coloro – cioè di tutti noi – che abbiamo consentito, con il voto, o con la mancanza di voto che andassero in Parlamento coloro che quella legge l’hanno approvata.
Dite che non siamo responsabili perché non abbiamo votato nel per Bossi, né per Fini, né per Berlusconi? Non basta lo stesso, perché evidentemente non abbiamo testimoniato con sufficiente vigore il nostro schifo davanti a chi non soltanto è razzista, ma soprattutto è inumano e, magari, dice di approvare le parole del Papa.
A sentire quello che dopo la tragedia i portavoce della Lega hanno detto contro la Boldrini e la Kyenge non può non far capire che i rapporti con la Lega e con coloro che la pensano nella stessa maniera non possono esistere. La differenza, in questo caso, non è politica. È proprio antropologica. Si può dare la mano, o semplicemente fare un cenno di saluto a coloro che non versano neanche una lacrima davanti a centinaia di morti e che pensano soltanto a difendere i loro meschini privilegi davanti a poveri diseredati che rischiano la vita scappando dalla guerra, dalla fame, dalla schiavitù?
La vergogna è tutta per noi se continueremo a rivolgere la parola ai leghisti e ai loro complici. Perché la loro non è libertà di parola: è infame arbitrio.

lunedì 30 settembre 2013

Un comico per niente ex

Quando si sbaglia è doveroso ammetterlo e sarebbe il caso che facessero ammenda tutti coloro per ben più di un anno hanno definito Beppe Grillo un “ex comico”. Non è per niente vero: Grillo è ancora un comico a tutto tondo e lo ha dimostrato in maniera spettacolare quando ha avvertito, con un cipiglio che ai più creduloni poteva sembrare vero: « Avverto i dieci milioni di italiani che votano PD e i dieci milioni di italiani che votano PDL: se continuate a votare così, il movimento se ne va. Dico che se non ci votate mi tiro fuori». E poi ha coronato il suo pindarico pensiero con un «Votiamo subito e ricostruiamo il Paese con un esecutivo a cinque stelle».
Alla seconda parte del cosiddetto ragionamento nessuno ha fatto troppo caso. È stato il primo concetto a far sobbalzare ben più dei 20 milioni di italiani che votano PD o PDL e a far chiedere loro: «Ma è davvero così facile far sparire Grillo dal panorama politico italiano?». Un panorama politico abbondantemente squallido, d’accordo, ma nel quale ancora occorre saper disporre di un vocabolario che si estenda al di là del ”no”, degli improperi, delle offese e delle parolacce. «Ma è davvero così che si può farlo tornare ai palcoscenici davanti ai quali il pubblico, per essere soddisfatto, sa accontentarsi anche di molto poco?».
Ma lasciamo perdere le facezie perché la situazione è drammatica, anche se non seria, e chiediamoci se Grillo si rende conto di vivere in un mondo che si estende un po’ oltre le stanze in cui si incontra con Casaleggio. Se sa che a problemi complessi occorre sforzarsi di rispondere con pensieri complessi e non con slogan e battute che ormai fanno ridere soltanto raramente.
La risposte mi sembrano evidentemente negative come è dimostrato abbondantemente dal concetto «Se non votate per me, non gioco più e me ne vado a casa».

venerdì 27 settembre 2013

Il compromesso antistorico

E poi dicono che il rispetto del significato delle parole non è importante. Si afferma – ed è vero – che la politica è l’arte della mediazione, parola che spesso viene assimilata come sinonimo di compromesso il cui significato etimologico, ormai praticamente dimenticato, è "promessa comune", un’azione che vede un punto di accordo e di equilibrio tra due arretramenti che possono comportare reciproci vantaggi più forti delle rispettive perdite. Quindi il sostantivo “compromesso” indica un arretramento, non una rinuncia totale ai propri principi, ai propri punti di vista, ai propri progetti e obbiettivi. Anzi.
Vista la soluzione eversiva che Berlusconi impone ai suoi obbedienti servitori per cercar di realizzare la sua convinzione di essere al di sopra della legge, viene da ripetere la domanda già fatta alcuni mesi fa: a un partito di centrosinistra conveniva davvero continuare ad arretrare davanti alle pretese sempre maggiori e ingiustificabili, in una visione di equità sociale, da parte di un evasore fiscale (la sentenza definitiva è arrivata da poco, ma tutti – tranne Bondi – ne erano già convinti da tempo) per assicurare la cosiddetta governabilità? Non era meglio rifiutare fin dall’inizio qualsiasi compromesso antistorico per non compromettersi (nel significato del verbo riflessivo: rovinare la propria reputazione) con chi è su posizioni diametralmente opposte alle proprie.
In questo momento rinnovo il mio rimpianto per Bersani: è stato perdente, ma coerente e cosciente di cosa significa mediazione, e probabilmente la sua sconfitta è dipesa anche e soprattutto da chi il compromesso lo voleva a tutti i costi.
Il risultato è stato che la governabilità è rimasta un sogno e che nel suo nome è stato dato un nuovo colpo, forse mortale, alla nostra democrazia.

domenica 1 settembre 2013

O la pernacchia o il silenzio

Una volta una delle figure tipiche delle barzellette era quella del pazzo che si credeva Napoleone e che pontificava dicendo scemenze alle quali nessuna persona sana di mente pensava di dare la minima importanza. Oggi è la realtà a fornirci questa immagine e, visto che troppo spesso rispondiamo ai “Napoleone” della politica, allora probabilmente vuol dire che troppo sani di mente non siamo neppure noi.
Pensateci: ha senso rispondere a un Berlusconi che un giorno dice che il governo non sopravvivrà alla votazione della Commissione del Senato che, alla luce della sua infamante condanna definitiva, dovrebbe espellerlo da Palazzo Madama, e che meno di ventiquattr’ore dopo afferma che questo governo è ottimo e sicuramente continuerà a operare qualsiasi cosa accada? Quel Berlusconi che, con tutta probabilità da qui al 9 settembre dirà ancora molte volte tutto e il contrario di tutto.
Oppure, ha senso prendere in considerazione le proteste dei grillini che, davanti alla nomina di quattro nuovi senatori a vita di livello altissimo, riescono soltanto a vedere che ci saranno quattro stipendi in più che usciranno dalle casse del Senato, ma non percepiscono neppure lontanamente che dentro quell’aula entreranno intelligenze di cui si avverte la mancanza?
O, ancora: ha senso ribattere in qualche modo alla Lega che, travolta dagli scandali a livello nazionale e in tantissime sue emanazioni locali, continua a pretendere di ergersi a paladina della trasparenza e dell’onestà amministrativa?
O, andando veloci, come si fa a pensare di prendere seriamente gli ondeggiamenti di comodo di Casini, o di Pannella, l’astioso cipiglio di Monti, il continuo tutti contro tutti del PD nel quale ancora qualcuno pensa di essere furbo a far scoppiare delle vere e proprie mine affrettandosi poi a dire che si tratta soltanto di opinioni personali, mentre altri esaltano il confronto soltanto quando da questo confronto non escono sconfitti dai voti?
Una volta avevo suggerito di rispolverare la potentissima arma della pernacchia genialmente suggerita a suo tempo da Totò. Oggi credo che ancora più efficace sarebbe se si cominciasse a dare a queste cose lo spazio che meritano. Cioè, nessuno.

giovedì 29 agosto 2013

Gutta cavat lapidem

L’Italia non finisce mai di stupire noi italiani; figuriamoci gli stranieri. E l’infinito caso Berlusconi sembra fatto apposta per allontanarci sempre di più dal consesso delle democrazie serie e mature tra le quali noi sediamo molto di più per i principi esposti da una Costituzione tra le più belle al mondo che per l’applicazione concreta di quei concetti.
Dopo la sua condanna definitiva e la sua interdizione dai pubblici uffici, l’uscita dell’ex cavaliere (a proposito, a quando l’ufficializzazione della sua radiazione obbligatoria per legge dall’elenco delle onorificenze?) almeno dal Senato, se non dalla cabina di unica regia del suo partito-azienda, appariva scontata anche agli italiani e non soltanto agli stranieri per i quali del Berlusconi politico non si sarebbe dovuto più parlare già da più di dieci anni.
Ora, invece, nel nome di una fantomatica “agibilità politica”, che in realtà è un’immunità totale soltanto a lui riservata, tutto torna in discussione. E la possibilità di vedere un pregiudicato continuare a ricattare un intero Paese si sta facendo strada non soltanto tra i suoi dipendenti, ma anche tra alcuni di coloro che dovrebbero tenere all’uguaglianza davanti alla legge senza alcuna esitazione e che, invece, hanno uno stomaco talmente forte da non rivoltarglisi nel vedere bizantinismi legali, politici e procedurali che tentano di fare scempio della democrazia e dell’uguaglianza davanti alla legge.
Per capire di quale mostruosità stiamo parlando, basterebbe pensare a cosa succederà se arriverà a sentenza definitiva anche il processo Ruby (sette anni di carcere e interdizione perpetua), oppure al perché ogni cittadino, davanti a un simile stravolgimento etico, non possa sentirsi in diritto di calpestare la legge e di pretendere di non essere punito. Berlusconi vuole rivolgere appello alla Corte Europea dei diritti umani: probabilmente questa strada dovrebbe essere percorsa dal popolo italiano al quale l’uomo di Arcore ha tolto molto più di vent’anni di progresso.
Ma il vero problema per gli italiani, se vogliamo guardare avanti (Berlusconi, come tutte le cose umane, prima o dopo finirà) l è che, mentre il centro continua a esistere soltanto per barcamenarsi tra gli opposti schieramenti, dopo aver perso la destra, annegata nel populismo di un capitalista bulimico, l’Italia sta sempre più perdendo anche la sinistra che non riesce a trovarsi unita su nulla.
Epifani dice – e la stragrande maggioranza degli italiani si augura che sia così – che in commissione il PD sarà compatto nel votare per l’espulsione di Berlusconi, ma, nell’eco di alcuni distinguo, resta la sgradevole impressione che ogni qualvolta Berlusconi vuole qualcosa, il martellare dei suoi luogotenenti , ufficiali, e soldati semplici riesca a fare breccia in una parte della sinistra. Si potrebbe dire «gutta cavat lapidem», la goccia scava la pietra, ma l’idea più aderente alla realtà ci sembra quella di un torrente che precipita su un mucchio di terra non cementato.
L’improvvisa interruzione delle minacce di crisi da parte di Berlusconi, infatti, non è dipesa dall’evolversi di situazioni politiche governate dal PD, ma dal mercato, con il crollo delle azioni Mediaset considerate meno sicure in caso di caduta del governo.
Non sarebbe forse ora, per i rappresentanti del centrosinistra, di affrettarsi a chiudere la pratica Berlusconi e di cominciare al futuro dell’Italia e dei suoi abitanti? Alcuni lo stanno già facendo senza compromessi e i risultati, a livello di governo locale, si vedono distintamente.

giovedì 22 agosto 2013

Da paradosso a paradosso

È da sempre che la nostra politica si nutre di paradossi e di falsificazioni della realtà con un uso criminale, ancor prima che spregiudicato, delle parole; travisandole, applicandole a realtà che loro, poverine, non si sognerebbero mai di descrivere, creando con loro frasi che sono fatte solo ed esclusivamente per imbrogliare la gente che un po’ non ha memoria e un po’ non mette mai sotto la lente della critica le parole di coloro che sono - o appaiono - vicini alla propria posizione politica.
Già tre anni fa Gianrico Carofiglio aveva dato alle stampe un libro dal titolo “La manomissione delle parole”. Oggi Francesco Merlo riprende l’argomento illustrando alcuni casi plateali come “pacificazione” al posto di condono totale della pena, “agibilità politica” invece di immunità assoluta, “omicidio politico” in luogo di espulsione dal Parlamento di un indegno, e così via in un crescendo di fantasia perversa fino a giungere a “offesa della democrazia” al posto di rispetto della giustizia.
Ma in questa vertiginosa discesa dal mondo della logica a quello della truffa sembra che non ci sia mai fine. Il nuovo record lo ha stabilito il ministro Maurizio Lupi, berlusconiano di ferro, dicendo: «Per noi resta inaccettabile che il PD, nostro alleato di governo, voti in maniera pregiudiziale contro il nostro leader». Pregiudiziale? Ma il ministro conosce il significato delle parole che pronuncia? E allora le sentenze di primo e secondo grado e quella della Cassazione, se non giudizi, cosa sono?
Vien da pensare che se davanti a frasi come queste ci fosse sempre qualcuno che si alzasse per dire «Stai cercando di imbrogliare la gente che ti ascolta», forse questa Italia cambierebbe. Magari le prime volte gli artisti della contraffazione urlerebbero accusando gli altri di persecuzione. Magari, come spesso accade, direbbero di essere stati travisati. Ma se l’accusa di falsificazione scattasse ogni volta che qualcuno tenta di imbrogliare, alla lunga molti la finirebbero di credere di poter dire sempre tutto e il contrario di tutto. Di poter vivere e far vivere tutti nel paradosso.
E, a proposito di paradossi, sarebbe il caso di dire a Letta che è sì, come lui ha detto, «Paradossale aprire adesso la crisi». Ma ancora più paradossale è stato accettare di dare vita a questo governo che alcuni definiscono “governo di servizio” pensando invece a un governo di complicità.

giovedì 15 agosto 2013

La legge è uguale per tutti. E la grazia?

Checché ne dicano Berlusconi e i suoi dipendenti, la sentenza della Corte di Cassazione sui fondi neri Mediaset ha ribadito il fatto che la legge è uguale per tutti e che anche un ricco e potente imprenditore e politico può essere ritenuto colpevole e condannato esattamente come qualsiasi altro povero Cristo.
Adesso, però, le parole di Napolitano sembrano aprire un nuovo interrogativo: anche la grazia è uguale per tutti? È vero che il Presidente della Repubblica si limita a dire che la grazia per il momento non gli è stata chiesta e che, nel caso, deciderà cosa fare, ma è altrettanto vero che su questa dichiarazione, non del tutto netta, i berlusconiani hanno cominciato a fantasticare su inaccettabili ritorni in sella del cavaliere (anzi, per legge, dovrebbe essere ex anche in questo senso).
Eppure di dubbi non dovrebbero essercene: anzitutto, una grazia che intervenisse subito dopo una condanna definitiva si configurerebbe di fatto come un quarto grado di giudizio, tale da smentire e delegittimare la stessa Corte di Cassazione e non è ipotizzabile che Napolitano possa soltanto pensare a un simile vulnus alla Giustizia. Poi, per un provvedimento di clemenza, servono alcuni requisiti minimi tra cui un'istruttoria del ministro della Giustizia, un inizio di espiazione della pena, un parere favorevole degli organi penitenziari e dei servizi sociali e così via, che attualmente non possono neppure ancora esserci.
Ma soprattutto non dovrebbero esserci altri processi in corso, mentre su Berlusconi ne gravano ancora alcuni che dovrebbero arrivare a sentenza definitiva entro due o tre anni e dei quali uno, quello legato a Ruby, in primo grado ha già condannato Berlusconi a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Quindi credo che Napolitano – sempre preoccupatissimo per la tenuta di un governo che considera insostituibile – si sia espresso in maniera non troppo netta soltanto per non esacerbare ulteriormente gli animi. Ai berlusconiani, invece, sarebbe il caso di ricordare che una volta il Ministero della Giustizia si chiamava Ministero di Grazia e Giustizia con le due “G”maiuscole. In segno di rispetto per entrambi i sostantivi.

mercoledì 14 agosto 2013

Leggi, religioni ed esclusione

Anche questo commento si riferisce a un articolo di Ferdinando Camon, "Chi può dirsi davvero cittadino", apparso sul Messaggero Veneto, in cui lo scrittore continua la sua campagna contro lo jus soli
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Ferdinando Camon abilmente vuole sostenere le sue tesi di esclusione andando a toccare la sensibilità dei lettori là dov’è più acuta e cioè guardando alle categorie più deboli, quelle dei bambini e delle donne. Però, volendo mettere in crisi gli eccessi sociali altrui, finisce per mettere in crisi anche le regole nostre.
Giustamente condanna le parole di un imam milanese (riportate tra l’altro da un solo giornale, quello con la “G” maiuscola perché riferite a cose dette qualche anno fa, anche se la gravità non cambia) che elogiava i bambini-kamikaze; ma dalle sue parole si potrebbe pensare che un terrorismo senza bambini possa essere accettabile. La nostra storia ha avuto un orrendo contatto con il terrorismo e sappiamo bene che è stato sconfitto non andando soltanto a colpire gli esecutori più o meno giovani, ma anche i cattivi maestri che riuscivano a convincere menti che, a prescindere dall’età, erano facilmente orientabili.
Giustamente condanna i matrimoni imposti a bambine e ragazzine perché sono considerate oggetti di cui disporre a piacimento. Ma, al di là dell’età delle vittime, è forse meno grave quello che succede da noi dove quasi ogni giorno una donna viene uccisa da un uomo che continua a considerarla un suo possesso e che si rifiuta di lasciarle una libera scelta? Per non parlare, poi, dei matrimoni combinati, con spose spesso giovanissime, che sono diffusissimi in molte parti del Paese e che sono anzi la norma tra le famiglie delle varie mafie che operano, per crescere in ricchezza e potere, proprio come operavano i regnanti nei secoli scorsi.
Il problema è che Camon continua a cercar di dimostrare che gli altri sono peggio di noi. Invece, a parte il fatto che “altri” e “noi” sono categorie troppo vaste e variegate per avere riscontro nella realtà, farebbe meglio a puntare la sua attenzione su come si reagisce ai delitti e alle ingiustizie, se con uguaglianza di trattamento, o meno. Nell’America che lui cita, sia il nativo americano, sia il nuovo cittadino, sia l’immigrato in attesa di regolarizzazione, davanti allo stesso reato sono condannati nello stesso modo. E se questo non avviene, per esempio per il colore della pelle, sono centinaia di migliaia i cittadini che scendono in strada per protestare. In difesa di un povero Cristo, non di un ricco politico.
E Camon, a meno di non essere convinti che noi – occidentali e cattolici – siamo i migliori di tutti, mette in crisi anche lo stesso concetto di religione che si rivela relativo perché le leggi non si muovono dal luogo in cui sono scritte, mentre le regole religiose ognuno le porta sempre con sé. E non sempre sono giuste per il luogo dove si va: provate a bere una birra in Arabia Saudita.

giovedì 8 agosto 2013

Il razzismo in doppiopetto

Pubblico anche sul blog questo mio commento già apparso oggi sul Messaggero Veneto in carta e che si riferisce a un articolo scrittovi da Ferdinando Camon nel quale, dopo aver criticato l'atteggiamento della Lega nei confronti del ministro Kyenge, afferma che comunque la scelta di nominare Cécile Kyenge, è sbagliata.
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L’unica cosa che riesco ad apprezzare nel pezzo di Ferdinando Camon “Un ministro italiano sbagliato” è il passaggio in cui scrive «Attenzione a quello che ora dirò, me ne assumo la responsabilità» che, in un periodo di mezze frasi e di impossibili smentite non è davvero poco.
Ma, per il resto, devo ammettere che pochi articoli come questo sono riusciti a indignarmi perché, in definitiva, Camon condanna il razzismo becero e maleducato, ma approva quello – per usare un modo di dire probabilmente dimenticato e applicato a un altro “ismo” – “in doppiopetto”. Le parole, infatti, non si riferiscono a nulla di politico, anche se alla fine lo scrittore tira in campo l’egiziano Magdi Allam che è esponente della destra più conservatrice e del cattolicesimo più integralista (ha rinnegato la conversione con l’elezione di Papa Francesco) che, però, curiosamente considera un atto di razzismo contro gli italiani la designazione della Kyenge, ma non la propria elezione al Parlamento europeo.
Il ragionamento di Camon si sviluppa intorno allo jus soli di cui dice che «per cui uno viene qui e in un attimo è nostro concittadino», mentre invece, uno dovrebbe nascere qui e anche viverci. Ma gli equivoci non finiscono visto che attribuisce l’uso dello jus soli in America al fatto che i «colonizzatori si sono eretti a cittadini aventi ogni diritto, compreso quello di stabilire chi è e chi non è americano». Ma la stessa cosa avviene anche in Italia dove viene invece applicato lo jus sanguinis.
E allora, probabilmente, come dice inizialmente anche Camon, bisognerebbe affrontare il concetto di cittadinanza su livelli diversi che riguardano più l’aderenza alle regole, che al sangue, o al suolo. Lo dice inizialmente, ma poi lo dimentica completamente visto che afferma che la Kyenge è «un’ottima persona, ma che ragiona da extra-italiano».
A parte il fatto che, visti certi esempi italiani, probabilmente il ragionare da extra-italiano potrebbe essere considerato un pregio, vorrei sapere da cosa Camon trae questa convinzione: la Kyenge arriva in Italia a 19 anni; si laurea in medicina alla Cattolica di Roma; a trent’anni si sposa con un italiano e diventa italiana; conosce perfettamente la Costituzione e osserva le leggi di questa nazione; opera attivamente in associazioni interculturali che si occupano non soltanto da migranti; è stata insignita della cittadinanza onoraria da due comuni; da nove anni opera attivamente in politica.
Da Camon vorrei sapere cosa c’è di “extra-italiano” in questa biografia. Oltre, beninteso, il luogo di nascita e il colore della pelle.

sabato 3 agosto 2013

Il governo e la democrazia

Quello che ha di buono Berlusconi è che non è capace di fingere a lungo: meno di ventiquattr’ore dopo aver ribadito con grande seriosità ed enorme faccia tosta che le sue vicende non devono interferire con quelle del governo Letta, ha già affermato che, o si riforma la giustizia a suo uso e consumo, oppure questo governo cade immediatamente. E tutto questo mentre l’inqualificabile Santanché sostiene petulantemente e senza mai ascoltare gli altri, che la condanna del principe degli evasori è una “mutilazione” della democrazia perché in tanti sono stati così improvvidi da credergli e da votarlo, e mentre Simone Furlan, generale in capo del sedicente “Esercito di Silvio”, minaccia che se Napolitano non concederà subito la grazia al pregiudicato di Arcore, si rischierà una rivoluzione popolare.
Sarebbe ora che l’attenzione si allontanasse da Berlusconi e si dirigesse verso altre due persone: il presidente del Consiglio, Letta, e il presidente della Repubblica, Napolitano.
Il primo ha detto: «Sarebbe un delitto far cadere il governo» e gli si può rispondere tranquillamente che un delitto ancora maggiore sarebbe quello di mandare davvero in frantumi una democrazia infrangendo le regole della sua Costituzione per la paura – nella migliore delle ipotesi – dei cosiddetti “mercati”. Una nazione senza soldi può rinascere, una nazione senz’anima non può che morire e la storia è stata prodiga di esempi in questi sensi. Una piccola domanda di contorno: si può proclamare una guerra all’evasione alleandosi con il principe degli evasori che non solo pratica, ma anche teorizza che sia giusto non dare soldi al fisco?
Napolitano, invece, non ha detto che il governo deve restare assolutamente in piedi: non l’ha detto perché l’ha già ripetuto fino alla nausea. Lui in questo momento ha ancora maggiori responsabilità di Letta e, oltre a quello che ho appena scritto, sarebbe il caso di ricordargli anche che la concessione della grazia è subordinata all'intervenuto perdono delle persone danneggiate dal reato. Questo non vuol dire soltanto il fisco, ma, visto che i fondi neri costituiti frodando il fisco sono serviti per inquinare con la corruzione la vita politica italiana, a concedere il perdono non dovrebbe essere soltanto in fisco, ma Prodi, il suo governo e tutti noi cittadini che in quel governo speravamo e che da De Gregorio e da chi lo ha corrotto siamo stati truffati.
A chi ha rubato vent’anni di vita al nostro Paese e lo ha ridotto, non soltanto economicamente, in questo stato, personalmente non darei mai il mio perdono e sono certo che la maggior parte degli italiani la pensa esattamente come me.

venerdì 2 agosto 2013

Lo show non è finito

Se qualcuno pensa che lo show sia finito, o che almeno sia vicino alla fine, si sbaglia di grosso. Una condanna definitiva è definitiva per chiunque, ma Berlusconi e i suoi sono convinti che per Berlusconi questo non valga.
I segnali sono molteplici e chiari. Il guitto mummificato appare in televisione recitando non molto efficacemente la parte dell’emozionato e attacca ancora a testa bassa la magistratura annunciano sia la rinascita di Forza Italia, sia la continuazione della lotta alla democrazia. La sua devota servitrice Biancofiore consegna nelle sue mani – e non in quelle del presidente del Consiglio – la delega al sottosegretariato, a dimostrare che tutto l’entourage berlusconiani è al servizio del capo e non della Repubblica. Riprendono forza le voci che vogliono la figlia Marina alla testa del partito, ovviamente non per capacità politiche, ma in quanto, come parente stretta può essere una delle poche persone che potranno avere contatti con Berlusconi agli arresti domiciliari. Fin da subito si è cominciato a mettere in campo ipotesi di cavilli interpretativi delle leggi apparentemente chiare per evitare che venga espulso dal Senato e che diventi ineleggibile. Il PD continua a baloccarsi con la finzione dell’unico governo possibile e con la realtà dell’unico governo al mondo nelle mani di un pregiudicato.
E si potrebbe andare avanti a lungo su questa strada indicando ipocrisie come quella di Grillo senza la cui immobilità Berlusconi sarebbe già stato messo ai margini del Parlamento da molti mesi e pure falsità dei berlusconiani come quella che indica improvvisamente come comunista una sezione di Corte di Cassazione che fino a ieri mattina era indicata come un punto di riferimento per la giustizia.
Lo show, quindi proseguirà. Ma, come per le malefatte di Berlusconi era costituzionalmente giusto fare riferimento alla magistratura (che ha ancora un bel po’ da fare con il medesimo imputato) e non alla politica, così ora, per il lavorio di intorbidamento della politica, l’unica via possibile è, appunto, quella politica. Un’azione seria in questo senso è l’ultima occasione per il PD non soltanto per riconquistare almeno parte del proprio elettorato possibile, ma anche per sopravvivere.

sabato 27 luglio 2013

La democrazia non è solo votare

Non sono mai stato iscritto ad alcun partito (e questo sottrarsi a una scelta probabilmente è stato un errore di cui mi pentirò per sempre) e, quindi, nemmeno al PD per il quale però nutro grande simpatia e al quale ho spesso scelto di dare il mio voto che è sempre rimasto nell’area di centro-sinistra. Da esterno, quindi, credo di poter dire , senza destare eccessivi sospetti, che, mentre mi sento sicuramente in diritto di votare alle primarie indette per designare il candidato premier al quale sarà delegato il compito di amministrare tutti gli italiani – quindi, me compreso – non mi sento assolutamente in diritto di votare per le primarie per il segretario del partito che avrà il compito di guidare il PD di cui, appunto, non sono un iscritto.
Non si tratta di presa di posizione contro i desideri di Matteo Renzi – per le cui visioni sull’economia e sul lavoro, peraltro, non nutro molte simpatie – ma di normale rispetto per quella che considero una democrazia reale che, prima di arrivare al voto, implica un confronto e una partecipazione al dibattito che deve servire a rendere le scelte ragionate e non di “di pancia” o di simpatia.
Mi sembra che chi insiste per far votare per il segretario del partito (che credo che, per motivi di impegni totalizzanti, non debba coincidere con il premier) stia snaturando la democrazia riducendola a un puro esercizio del voto.
E questo è un passo davvero pericoloso perché se il voto è l’unica evidenza della democrazia, allora davvero si può facilmente sostenere che il numero di coloro che hanno votato per Berlusconi è più “pesante” di tre gradi di giudizio della magistratura.

giovedì 11 luglio 2013

Cosa cadrà per primo?

La domanda, ormai, è soltanto una: cadrà prima il governo italiano, oppure la democrazia italiana, o, almeno, quello che ne resta?
Il PDL non fa nulla di strano: obbedisce al suo boss che ha, come unico interesse quello di salvarsi da condanne che gli porterebbero via il potere e, quindi, anche parte dei tanti soldi che con quel potere è riuscito ad accaparrarsi. Per lui la democrazia non è mai esistita: perché dovrebbe preoccuparsene?
È il PD - che ha l'aggettivo "democratico" nel suo nome - a fare molto di strano perché rimane ostaggio di Berlusconi e dei dipendenti di Berlusconi. E, se questi vogliono chiudere il Parlamento perché la magistratura fa il suo dovere, il PD al massimo riesce a mediare per ridurre la chiusura a qualcosa di simbolico. Ma il PD si è forse dimenticato del peso che i simboli hanno in una società?
I grillini adesso si stracciano le vesti per l’offesa al Parlamento e alla democrazia, ma dimenticano che sono stati loro a offendere la democrazia rifiutando qualsiasi dialogi con chiunque. Srabbe il caso di ricordare a Casaleggio e compagni che in Parlamento e in una nazione la parola maggioranza normalmente non si riferisce soltanto a quella all’interno di un partito, bensì a quella che si forma all’interno di una nazione stessa esprimendo e riassumendo il pensiero degli elettori.
E anche Napolitano fa molte cose strane perché sembra che per lui l’unico valore esistente sia quello della sopravvivenza di un governo che dovrebbe tranquillizzare i “mercati”. Resterà in silenzio anche davanti a un tentato blocco del Parlamento da parte di Berlusconi e dei suoi complici? Secondo me, se si continuerà a salvare questo governo (pur con tutta la simpatia e la comprensione per Letta), si finirà per affossare definitivamente la nostra democrazia.
E la storia insegna che occorre molto più tempo e che si corrono molti più rischi per risalire da una crisi democratica che da una crisi economica.

sabato 6 luglio 2013

Se non i diritti, cosa?

Il presidente della Camera Laura Boldrini rifiuta un invito a una visita a una fabbrica Fiat «causa impegni istituzionali già in agenda», ma approfitta della missiva di risposta per dire a Sergio Marchionne quello che finora ben pochi politici hanno avuto il coraggio di affermare: «Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell’innovazione. Una via che non è in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa».
È una boccata di ossigeno nell’asfittica atmosfera della politica italiana; è una dichiarazione nella quale non mi sognerei di toccare neppure una virgola. Questo, ovviamente, se si è in sintonia con un concetto di socialità che è molto vicino a quelli di uguaglianza e di solidarietà.
Quindi ci si potevano aspettare commenti negativi da parte dei berlusconiani, ma probabilmente – tranne Cicchitto e Matteoli – erano distratti dai problemi innescati dalla rinascita di Forza Italia e, forse, di Alleanza Nazionale. Oppure dai leghisti che hanno sempre visto la Boldrini come il fumo negli occhi perché aiutava quegli extracomunitari che i seguaci di Bossi o di Maroni non riescono a vedere come uomini, ma anche loro dedicano tutta le loro attenzione alle possibili scissioni interne.
E, invece, i distinguo e le dissociazioni arrivano proprio dal centrosinistra, oltre che dal partito fondato da Monti. Segnatevi questi nomi: Esposito, Gozi e Giachetti. Sono figure marginali, ma indicano chiaramente che nel PD ci sono cose che non funzionano e che Epifani e Fassina, con le loro dichiarazioni tese soltanto ad annacquare le polemiche, certamente non risolvono.
Ma Esposito, Gozi e Giachetti – e sicuramente qualcun altro che la pensa come loro, ma non lo dice pubblicamente – si rendono conto che si sta parlando di erosione di diritti? E, allora, potrebbero spiegarmi perché esiste un partito di centrosinistra se non per difendere i diritti dei più deboli, visto che i più forti se li difendono da soli, se addirittura non se ne creano nuovi che assomigliano straordinariamente a degli arbitri.
Il dubbio è soltanto se non si rendono conto di questa realtà, oppure se la usano scientemente per alimentare la lotta tra le correnti del PD. E francamente non so dire quale delle due ipotesi sia la peggiore. Ci sarebbe da sperare, più semplicemente, che abbiano sbagliato partito in cui militare. Perché senza difesa dei diritti cos’è il Pd? Perché qualcuno che al sociale crede dovrebbe votarlo ancora?

sabato 29 giugno 2013

Il cordoglio per una grande donna

Ci sono notizie che non sono inattese, ma che riescono a colpirti con la stessa forza che avrebbero se fossero inattese. Che Margherita Hack fosse ammalata di cuiore, che avesse 91 anni, che ogni giorno avvertisse più palpabilmente la fatica di fare anche un solo passo, lo si sapeva, ma l'annuncio della sua morte è stato terribile lo stesso. L'ho incontrata più volte e mentre all'inizio pensavo a lei soprattutto come a una grande scienziata, poi mi sono reso conto che era un gigantesco essere umano, capace di bontà e coerenza, solidarietà e rispetto, dirittura morale e dirittura politica.
Lascia un vuoto davvero incolmabile.

martedì 25 giugno 2013

La giustizia e le elezioni

Devo confessare che delle finezze della politica moderna capisco poco o nulla. Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per concussione aggravata «per costrizione» e per prostituzione minorile e, mentre il PDL si straccia le vesti contro quella che per loro è una “giustizia politicizzata”, da molte parti del centrosinistra si sente ripetere che «Berlusconi va battuto alle urne».
Questa frase non soltanto non la capisco, ma addirittura mi sembra pericolosissima. Non sto dicendo che Berlusconi deve andarsene perché è colpevole: questo sarà stabilito dopo il terzo grado di giudizio. Sto dicendo che con questa frase alcuni esponenti del centrosinistra stanno sostenendo le stesse cose del centrodestra: che, cioè, i poteri legislativo ed esecutivo non possono essere controllati dal potere giudiziario e che quest’ultimo non deve essere indipendente dagli altri due: esattamente il contrario di quello che dice la nostra Costituzione.
Cosa diavolo c’entrano i 9 milioni di voti ottenuti da Berlusconi con i presunti reati che gli sono attribuiti? Cosa diavolo c’entrano i vent’anni in cui dal ponte di comando ha rovinato l’Italia approfittando biecamente degli irrisolti conflitti di interesse e distruggendo deliberatamente un tessuto etico e culturale che aveva permesso al nostro Paese di risalire dal disastro del fascismo e della guerra?
Il paragone non sembri assurdo, ma i seguaci delle mafie sono sicuramente milioni, eppure nessuno, pur sapendo benissimo che le mafie si arricchiscono con il traffico di droga e di esseri umani e con l’accaparramento illegale di appalti, ai tempi del processo contro Totò Riina ha mai sostenuto che il boss andava sconfitto sul piano commerciale e non nei tribunali.
I reati sono reati e i codici sono cosa ben diversa dai voti. Quindi annacquare il significato, pur provvisorio, di una sentenza rivendicando il predominio delle urne sulle aule giudiziarie non significa altro che indebolire ulteriormente il potere e il prestigio della legge.
Questa non è una partita di calcio in cui importante è vincere, ma in cui se si perde, si riproverà il prossimo anno. Qui stiamo parlando del destino di un Paese che nel ventennio berlusconiano è andato a rotoli in tutti i sensi. Fare i falsi de Coubertin in politica è non soltanto ipocrita, ma anche autolesionista. Berlusconi continui pure a fare politica fino a quando non sarà condannato definitivamente, ma poi subisca le conseguenze dell’eventuale condanna come qualsiasi altro cittadino.
Rimandare il giudizio dei giudici al giudizio delle urne è uno dei più gravi insulti possa essere fatto nei confronti di una vera democrazia.

mercoledì 19 giugno 2013

La terribile tentazione del bene

Che fosse pericolosa lo si era detto fin dall’inizio, ma temo che la vicenda di Grillo, di Casaleggio e dei loro fedelissimi fans del Movimento 5 stelle sia ancora in fase di sottovalutazione; che sia guardata con divertito sdegno, più stando miopemente più attenti alle possibili conseguenze di una sua implosione piuttosto che ai pericoli insiti in un suo consolidamento e arroccamento su posizioni sempre più oltranziste.
Il fatto che deve attrarre l’attenzione, infatti, non è tanto la serie di espulsione, sempre più cieche e violente, e neppure la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare con le sue possibili conseguenti alleanze, bensì il piglio sempre più deciso con cui Casaleggio e Grillo fanno agire i loro rappresentanti in Parlamento, rappresentanti che non riesco a definire in maniera più efficace di quella usata dalla senatrice Pinna, anche lei grillina in odore di cacciata: “talebani”.
Qui ovviamente la religione non c’entra nulla, ma c’è , invece, la sacralizzazione dei propri pareri fino a far diventare le opinioni dei dogmi dei quali non si può discutere pubblicamente pena le conseguenze più disastrose e, cioè, per il momento, la cacciata dal partito. Ma quando – speriamo non debba realizzarsi mai – la maggioranza del partito dovesse diventare maggioranza del Paese, le espulsioni rispetto a cosa sarebbero fatte? Forse dal Paese stesso, o, almeno, dalla società?
Ridicolo? Padroni di pensarlo. Ma la storia del XX secolo, a destra e a sinistra (nazismo, fascismo, comunismo reale), è colma di esempi di questo tipo, di partiti che nascono curando ossessivamente la purezza delle idee al proprio interno e poi diventano egemoni e finiscono per curare la purezza delle idee (e non soltanto di quelle) nell’intera società che governano.
A tale proposito vorrei consigliarvi la lettura di un libro scritto da Tzvetan Todorov nel 2001: “Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico” in cui l’autore condanna senza esitazioni la convinzione che ci sia una netta separazione tra bene e male, quella totale e pericolosissima mancanza di chiaroscuri. Il concetto di “tentazione del bene” vuol dire proprio la certezza di possedere il concetto di bene, di vederlo incarnato in noi e di volerlo imporre con la forza agli altri, anche a costo di seminare violenza.
E purtroppo, paradossalmente, la storia insegna che ha fatto molto più male – e su più larga scala – la tentazione del bene che quella del male.

martedì 28 maggio 2013

Il sorriso e l'arrabbiatura

Finalmente una tornata elettorale in cui un affezionato elettore del centrosinistra può sorridere; tepidamente, d’accordo, ma almeno sorridere. Ma è proprio questa voglia di cantare vittoria che deve far stare all’erta. E non soltanto perché tra due settimane c’è un secondo turno che non va assolutamente sottovalutato.
Per valutare bene la situazione non si può non partire dal dato dell’affluenza che, più che il calando, ormai è – se mi è consentita l’espressione – in precipitando, e dimostra che la gente è sempre più schifata da alchimie – tipo le "larghe intese" – che non è vero che non capisce: le comprende benissimo ed è per questo che diserta le urne.
E, allora, appare evidente che l’innegabile vittoria del PD dal punto di vista delle percentuali diventa una cosa ben diversa se il risultato viene guardato dal punto di vista del numero di voti: se, infatti, si può parlare di “tenuta” rispetto alle cifre assolute, questo deriva dal fatto che il PD è ancora forse l’unico partito che sbandiera idealismi e valori. Forse in realtà ne ha perduti molti per strada, ma almeno continua a dire che sono importanti e allora tanti continuano a votare per queste idealità che vanno al di là dei nomi delle persone che le rappresentano.
La stessa cosa non si può dire della Lega che sta lentamente sparendo senza sollevare alcun rimpianto e del PDL che vive soltanto sull’istrionismo di Berlusconi e che, quando questo camuffamento manca e appaino le terribili mancanze di idealità, si ritrova a poter offrire ben poco, o meglio quasi nulla, agli elettori.
Discorso diverso per Casaleggio e il suo portavoce Grillo che sono riusciti a sperperare un patrimonio di voti incredibile in pochissimi mesi dando l’impressione di essere molto più interessati a rafforzare le loro posizioni all’interno del “movimento” nella speranzosa e illusoria attesa di andare al potere nel Paese, piuttosto che cercare il bene per il Paese stesso.
A pensare dove potrebbe essere il PD, a come potrebbe essere governata l’Italia, se all’interno del PD non fosse permanentemente in corso la tradizionale guerra per bande, c’è da arrabbiarsi (talvolta rinunciare al turpiloquio costa perché è molto più efficace) davvero seriamente.

giovedì 23 maggio 2013

Un mondo più povero

La morte di don Andrea Gallo non coglie di sorpresa, ma lascia comunque un grande vuoto perché con la sua scomparsa viene a mancare un altro dei pochi esseri umani capaci di dare l’esempio con la parola e con l’azione, mantenendo sempre con i fatti quello che diceva.
Esseri umani, dico, e non soltanto prete perché era lui per primo a voler far passare, in precedenza rispetto a tutti gli altri, che la rettitudine, la fratellanza, la solidarietà, l’impegno costante sono obblighi etici che non riguardano soltanto i sacerdoti – per i quali, anzi, diceva che dovrebbe essere normale – ma anche tutti gli uomini e le donne e, soprattutto, coloro che hanno responsabilità sociali.
A sentirlo, anche in privato, poteva apparire istrionico, sempre alla ricerca della battuta che attirasse l’attenzione del pubblico, ma, in realtà, questo era soltanto un sistema più che valido per far diffondere più largamente e più profondamente il suo messaggio e per sottolineare che, pur davanti a continui esempi sconfortanti, non si deve mai rinunciare a parlare e a lottare.
In questi giorni in cui dobbiamo convivere con i governi di quelle intese che saranno larghe tra i parlamentari, ma non abbracciano certamente la maggioranza degli italiani, in cui vediamo che Penati, dopo aver sbandierato la sua intenzione di rifiutare la prescrizione, si è adeguato all’andazzo berlusconiano, l’insegnamento di don Andrea Gallo spicca per la sua forza e per la sua necessità. Ma anche per la sua terribile semplicità: tenere uniti etica, parole e fatti.
Da ieri il mondo è sicuramente più povero.

domenica 19 maggio 2013

Un suicidio che coinvolge troppa gente

Taluni dicono che se uno decide di suicidarsi si deve lasciarlo seguire la strada che ha scelto. Se ne può discutere. Assolutamente indiscutibile, invece, è che se uno vuole suicidarsi facendo esplodere e crollare il condominio in cui vive è obbligatorio intervenire per salvare la vita di altri innocenti che altrimenti ne sarebbero coinvolti.
Fuor di metafora: direi che è indiscutibile che il PD sia in preda a un “cupio dissolvi” che ormai sembra essere irreversibile. Ma altrettanto indiscutibile è il fatto che il centrosinistra ha bisogno di un partito che faccia massa critica attorno alla quale le altre formazioni politiche vicine possano coalizzarsi per sconfiggere il berlusconismo e i disastri che continua a portare con sé. E che, quindi, è obbligatorio cercare di convincere il PD a cambiare strada prima che il suicidio sia portato a compimento.
Di tentativi di suicidio del PD ne vediamo quasi ogni giorno e ieri se ne è avuta l’ennesima conferma: mentre il PDL va tranquillamente in piazza ad attaccare la magistratura per difendere l’impunità di Berlusconi , il PD tiene a casa le bandiere per paura di essere confusi con coloro che partecipano alla manifestazione della FIOM che vuole difendere il lavoro e i lavoratori senza attaccare nessuna istituzione repubblicana.
Eppure una volta la sinistra si rivolgeva ai lavoratori; e i lavoratori, anche se la classe operaia è stata massacrata, continuano a esistere ancora. Eppure il segretario del partito è Epifani, ex segretario confederale della CGIL. Eppure buon senso vorrebbe che, visto che ci si oppone al qualunquismo dei grillini che affermano che destra e sinistra ormai sono uguali, ogni tanto bisognerebbe pur fare qualcosa di sinistra almeno per affermare di esistere ancora.
Bisogna dire che alcuni esponenti del PD (Fabrizio Barca, Matteo Orfini e Sergio Cofferati) hanno partecipato a titolo individuale ed è anche necessario sottolineare che a livello regionale i comportamenti sembrano essere molto più coerenti con i valori che il PD dovrebbe rappresentare. Ma comunque sta di fatto che la domanda è inevitabile: fino a quando il PD pensa di poter prendere per i fondelli i propri elettori cercando di convincerli a scegliere sempre il medesimo partito, mentre, invece, la mutazione sembra essere ormai diventata sostanziale?

giovedì 9 maggio 2013

Una sorta di accanimento terapeutico

Non c’è neppure il tempo di godersi il successo di Honsell nel ballottaggio comunale udinese che le notizie italiane si impongono e intristiscono.
Il governo Berlusconi (è lui che ricatta e decide, ormai senza neppure la mediazione di Alfano, anche se Letta ostenta una sicurezza che non soltanto non può avere, ma che viene continuamente smentita) continua a imporre le proprie scelte; e quella scandalosa di Nitto Palma alla Commissione Giustizia del Senato è soltanto l’ultima. Nel frattempo il PD non perde occasione per mettere in mostra le proprie spaccature e le proprie ipocrisie, due difetti che non potranno far altro che portare alla scomposizione del partito in diverse anime e alla perdita di un consistente numero di voti che migreranno verso SEL, o verso una qualche forma di protesta che per la maggior parte si identificherà con il non voto.
Forse sbagliamo a continuare a parlare di convinzioni sociali e politiche. Più probabilmente ora dovremmo dare la precedenza a discorsi sulle qualità delle donne e degli uomini che queste convinzioni pretendono di rappresentare. È possibile, per un eletto dal popolo, non rappresentare più gli elettori privilegiando, invece, la propria convenienza del momento? È possibile concentrarsi sulle geografie interne di un Partito e dimenticarsi delle urgenze di un intero Paese in affanno? È possibile tradire milioni di elettori che si sentono totalmente alternativi a Berlusconi andando a governare (?) con lui? E potrei continuare a porre domande che hanno risposte troppo tristi e angoscianti.
Eppure gli esempi positivi non mancano: Serracchiani e Honsell, per esempio, hanno vinto con il centrosinistra presentando programmi buoni e credibili e non rincorrendo soltanto l’avversario. E a Milano Umberto Ambrosoli non ha avuto dubbi a uscire dall’aula del Consiglio regionale mentre Maroni commemorava Andreotti che di suo padre aveva detto: «Ambrosoli? Uno che se l’andava cercando», dimostrando così che la coscienza personale non può mai avere il sopravvento sulle convenzioni istituzionali.
Ecco, mentre i maggiorenti del PD, stanno lambiccandosi il cervello sulle formule da adottare per realizzare una sorta di accanimento terapeutico per tenere il vita il loro partito, vorrei dire che l’unico modo per uscire da questa situazione è che ognuno sappia recuperare l’orgoglio delle proprie idee e dei propri valori e la dignità personale. Poi, forse, il PD finirà comunque per frantumarsi, ma almeno le idee del centrosinistra continueranno ad avere persone capaci non soltanto di portarle avanti, ma anche di saper parlare al cuore e al cervello della gente.